L’offensiva del sorriso di Assad

Ma perché rifiuta un incontro al vertice a Gerusalemme o a Damasco?

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2243Qualcosa si muove, in Siria, anche se valutarne il vero significato non è facile. Mercoledì il presidente francese Nicolas Sarkozy è arrivato a Damasco, prima visita di un leader occidentale in Siria dall’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri nel febbraio 2005. Giovedì è stato raggiunto dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa per un summit a quattro con il presidente siriano Bashar Assad.
La visita di Sarkozy segue a ruota la dichiarata intenzione di Damasco di aprire per la prima volta un’ambasciata a Beirut, riconoscendo in questo modo il Libano come un’entità separata dalla Grande Siria. Il summit giunge poi in coincidenza con l’annuncio di un ulteriore round di negoziati indiretti fra Siria e Israele che dovrebbe aver luogo nei prossimi giorni.
Intanto, intervistato martedì scorso dal terzo canale della tv francese, Assad ha affermato che i negoziati indiretti con Israele avrebbero prodotto “una possibilità di pace”, sebbene i due paesi abbiamo ancora molta strada da percorrere prima di intravedere tale risultato. “Oggi – ha detto – possiamo solo dire che abbiamo aperto la porta alla pace”.
È senz’altro nell’interesse d’Israele a lungo termine avere un trattato di pace con la Siria. Ma non a qualunque prezzo. La misura del ritiro israeliano deve essere commisurata alla misura della pace realmente offerta dalla Siria.
D’altra parte, non si può evitare di domandarsi come mai la retorica di Assad tenda a passare in modo così ballerino dalla belligeranza alla riconciliazione. Israele deve tenere gli occhi ben aperti, innanzitutto, sulla natura del regime siriano, sempre impegnato in un rapido processo di approvvigionamento e sviluppo militare. Secondo il capo ricerche dell’intelligence militare israeliana, generale Yossi Baidatz, già nel giugno 2007 la Siria stava “accelerando le acquisizioni militari”. Alla fine del 2006 il segretario del Dipartimento di stato Usa per la sicurezza internazionale e la non-proliferazione, John C. Rood, testimoniava che Damasco era impegnata in ricerche e sviluppo per un programma di guerra biologica offensiva. La Siria è anche da molto tempo uno stato sponsor del terrorismo, ospitando Hamas e altre organizzazioni estremiste palestinesi. Non solo trasferisce a Hezbollah armi iraniane, ma fornisce alla milizia jihadista libanese anche equipaggiamenti militari di fabbricazione russa come i razzi anti-carro Kornet e i suoi stessi razzi anti-uomo da 220 mm. Secondo un giornale kuwaitiano, il leader di Hamas Khaled Mashaal avrebbe lasciato Damasco alla volta del Sudan per via dell’interesse siriano a portare avanti i colloqui diplomatici con Israele, ma la notizia è stata messa in dubbio da Gerusalemme e smentita da Hamas.
Dunque, se Assad in questo momento manda qualche segnale di riconciliazione non è perché abbia abbandonato la sua tradizionale posizione belligerante, ma perché la cosa risponde i suoi interessi immediati e allenta le pressioni. Che è, in effetti, uno schema in funzione da tempo.
Nel 2004, dopo l’approvazione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu della risoluzione 1559 che ingiungeva l’uscita della Siria dal Libano, la dirigenza di Damasco accennò alla possibilità di negoziati con Israele. L’anno successivo, subito dopo l’assassinio di Hariri, quando anche Stati Uniti e Francia troncavano i rapporti diplomatici con Damasco, Assad tirava in ballo ancora una volta negoziati con Israele.
Adesso Assad è di nuovo sotto forti pressioni. Alcune di tipo economico, per via del deficit crescente, dei prezzi degli alimentari in continuo aumento e del calo continuo delle riserve petrolifere. Lo scorso aprile i problemi di budget hanno costretto il paese a sospendere i suoi tradizionali sussidi per il carburante.
Altre pressioni su Assad derivano dei gruppi per i diritti umani, disgustati dalla crescente repressione in Siria. Dodici attivisti, compreso l’ex parlamentare Riad Seif, sono attualmente sotto processo per aver partecipato lo scorso dicembre a un incontro di gruppi dì’opposizione. Una stampa davvero indipendente resta un miraggio.
Più di tutto, comunque, continuano a crescere le pressioni politiche sulla cricca alawita al potere. Dopo aver subito il grande smacco del bombardamento israeliano sul presunto impianto nucleare di fabbricazione nord-coreana nel settembre 2007 e, cinque mesi più tardi, a Damasco l’assassinio, tuttora senza spiegazione, del capo operazioni terroristiche di Hezbollah Imad Mughniyeh, ora il regime di Assad teme il tribunale internazionale che dovrebbe giudicare gli assassini di Hariri.
Può ben darsi che Assad stia ancora una volta sventolando la possibilità di una pace con Israele come strumento per riallacciare i contatti con Washington e Parigi e allentare l’isolamento internazionale. Ma potrebbe anche essere sincero. In questo caso, non dovrebbe far altro che venire a Gerusalemme, o invitare il primo ministro israeliano a Damasco, e illustrare pubblicamente la sua visione di pace.

(Da: Jerusalem Post, 4.09.08)

Nella foto in alto: il presidente siriano Bashar Assad e quello francese Nicolas Sarkozy al summit di giovedì a Damasco