L’opinione moderata israeliana tradita dagli interlocutori, abbandonata dagli alleati

La soluzione a due stati è lontana. Ma è davvero tutta colpa del “governo più estremista della storia d’Israele”?

Di Marco Paganoni

L'ex ministro della difesa israeliano Moshe Yaalon e il segretario di stato Usa John Kerry

L’ex ministro della difesa israeliano Moshe Ya’alon e il segretario di stato Usa John Kerry

Il punto, come al solito, è l’informazione. Certo, ognuno ha diritto alla propria opinione sulla nomina di Avigdor Lieberman a ministro della difesa e – se crede – ad esprimere preoccupazione. Ma la reazione quasi isterica manifestata in molti ambienti internazionali, a cominciare dai citatissimi New York Times e Financial Times, appare persino curiosa agli occhi di chi non dimentica alcuni fatti.

Poco più di due anni fa il “terribile” Lieberman veniva descritto, in quegli stessi ambienti, come l’elemento “moderato” del governo Netanyahu perché, da ministro degli esteri, sosteneva gli sforzi negoziali del segretario si stato John Kerry. E il ministro della difesa Moshe Ya’alon, oggi “saggio e rispettato”, passava per il capofila dei guerrafondai perché aveva accusato Kerry d’essere animato da “ossessivo fervore messianico”. Era il gennaio 2014 e Ya’alon – secondo il quale “il piano per la sicurezza presentato dagli americani non vale la carta su cui è scritto, giacché non porta né pace né sicurezza” – veniva etichettato da Kerry e dal suo team come il principale ostacolo all’accordo-quadro coi palestinesi. Dunque un paio di anni fa Ya’alon, e non Lieberman, era il Mr Hyde della pace. Come mai?

Lo spiegava bene Ron Ben-Yishai: “Ya’alon ritiene che gli sforzi di Kerry danneggeranno Israele in ogni caso: se Israele accetterà il piano si ritroverà con una situazione della sicurezza abbastanza folle nella valle del Giordano e in Cisgiordania, che alla fine si trasformeranno in una seconda Gaza più grande, più vicina al centro d’Israele e più pericolosa. Se invece Israele non accetterà i termini dell’accordo-quadro di Kerry, diventerà il paese paria sulla scena internazionale”. Sintetizzava Shimon Shiffer, un analista tutt’altro che tenero coi ministri di Netanyahu: “Lo schema di accordo che stanno elaborando può tradursi in un disastro per la sicurezza di Israele, ma se insisteremo a difendere i nostri più vitali interessi verremo percepiti come i responsabili del fallimento delle trattative”. Appunto.

2014: l’allora ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman con il segretario di stato Usa Jonn Kerry

E il “super falco” Lieberman, oggi babau di pacifisti, moderati e buonsensisti? Nel febbraio 2014, in un’intervista a radio Galei Tzahal l’allora ministro degli esteri prendeva le difese di Kerry, esprimendo il suo sostegno agli sforzi compiuti dagli Stati Uniti “anche se ci sono punti di disaccordo”. Per Lieberman, non era una novità. “Dico e scrivo queste cose dal 2004 – sottolineava – e le ho ripetute anche in occasione delle ultime elezioni: sono favorevole alla soluzione ‘due stati per due popoli’ e sostengo il discorso fatto da Netanyahu all’Università Ban Ilan nel giugno 2009. Alcuni dicono che non dobbiamo rinunciare a nessun pezzo di terra. Altri che bisogna fare un accordo con i palestinesi a qualsiasi costo. Io dico sì a un accordo con i palestinesi, ma non a qualsiasi costo”. Lieberman si è sempre pronunciato a favore di uno scambio di territori tale che entrambi gli stati, quello ebraico e quello arabo-palestinese, ne risultino con una popolazione più omogenea possibile. Tant’è che ha più volte affermato d’essere personalmente pronto a lasciare la sua casa a Nokdim (in Cisgiordania) se venisse annunciata la firma di un accordo di pace definitivo.

E’ vero, la prospettiva di una soluzione a due stati oggi appare difficilmente realizzabile, perlomeno nel breve-medio periodo. Come si spiega? E’ davvero tutta colpa del “governo più estremista della storia d’Israele”, e di quel Netanyahu che nel 2010 era arrivato a congelare per quasi un anno le attività edilizie in tutti gli insediamenti di Cisgiordania senza che ciò smuovesse di un centimetro il granitico Abu Mazen, che continuò a rifiutarsi di sedere al tavolo negoziale?

Vale la pena ricordare che due anni fa, negli stessi giorni in cui Kerry si offendeva per la sfuriata di Ya’alon, la vera notizia – lo sottolineava Dan Margalit – era il discorso con cui Abu Mazen aveva escluso il riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, aveva ribadito la volontà di spaccare in due Gerusalemme e aveva insistito sul cosiddetto “diritto” dei profughi palestinesi e di tutti i loro discendenti a insediarsi all’interno di Israele. “Abu Mazen ci ha fatto sapere che non è disposto a rinunciare a nulla, soprattutto al sogno di annullare lo stato ebraico”, annotava Gonen Ginat.

Lo schizzo con cui nel 2008 Abu Mazen, rientrato a Ramallah dopo l’ultimo incontro con il primo ministro israeliano Ehud Olmert, illustrò ai suoi collaboratori la proposta di stato palestinese che aveva rifiutato (fonte: tv Canale 10) – clicca per ingrandire

Vale anche la pena ricordare che lo scorso 17 novembre, intervistato dal Canale 10 della tv israeliana, Abu Mazen ha serenamente ammesso d’aver rifiutato, nel 2008, l’offerta dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert di creare uno stato palestinese che comprendesse, oltre alla striscia di Gaza, il 93,7% della Cisgiordania, più territori israeliani equivalenti a un ulteriore 5,8%, più un collegamento fra Gaza e Cisgiordania anch’esso parte dello stato di Palestina e persino il trasferimento della Città Vecchia di Gerusalemme sotto controllo internazionale. “Rifiutai subito”, ha detto serafico Abu Mazen.

Ecco perché il presidente palestinese ha accolto con entusiasmo l’inutile conferenza internazionale convocata a Parigi venerdì scorso. “Abu Mazen vuole internazionalizzare il conflitto – spiega Nahum Barnea – Quindi per lui la conferenza di Parigi è comunque un successo: gli interessa far pagare a Israele un prezzo a livello internazionale, anche se questo non lo farà progredire di un passo verso il suo stato indipendente. Quand’anche Israele fosse disposto a fare tutte le concessioni richieste, è difficile credere che Abu Mazen sarebbe disposto a fare quelle che toccano a lui. E quand’anche venisse elaborato da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza un progetto di risoluzione, i palestinesi sarebbero i primi a rifiutarlo”.

La realtà è che l’ampia opinione moderata israeliana favorevole alla separazione dai palestinesi (innanzitutto per preservare il carattere ebraico e democratico del proprio paese) è stata tradita dai suoi interlocutori e abbandonata dai suoi alleati.

Tradita dai palestinesi, che hanno sistematicamente affossato tutte le realistiche proposte di composizione del conflitto basate sulla creazione di uno stato palestinese.

E abbandonata dagli amici occidentali i quali, dopo i ritiri israeliani dalle città palestinesi (1995), dal Libano meridionale (2000) e dalla striscia di Gaza (2005), anziché difendere a spada tratta l’inviolabilità dei confini di Israele dimostrando agli israeliani d’essere realmente pronti a garantire la loro sicurezza, si sono spensieratamente abbandonati a indegne campagne di condanne e calunnie ogniqualvolta Israele – nel 2000, 2006, 2009, 2012, 2014 – ha dovuto difendersi da attacchi sferrati dai territori ceduti. Per dirla con Caroline Glick, “ogni volta che Israele ha ceduto della terra è diventato meno sicuro, gli arabi sono diventati più ostili e anche l’Occidente è diventato più ostile”. Questo, e non altro, è il motivo per cui la proposta diplomatica che la sinistra israeliana continua a riproporre non convince più gran parte dell’elettorato israeliano.

George Ball su Foreign Affairs, aprile 1977: “Come salvare Israele suo malgrado”

Nell’aprile 1977 il diplomatico americano George Ball scrisse un articolo su Foreign Affairs in cui sosteneva che Israele era incapace di accettare i compromessi necessari per garantire la sua esistenza, e concludeva che Israele “deve essere salvato da se stesso”. Sono passati quasi quarant’anni. Nel frattempo, governi israeliani di destra e di sinistra hanno fatto la pace con l’Egitto, hanno fatto la pace con la Giordania, hanno dato vita all’Autorità Palestinese con gli Accordi di Oslo e hanno garantito piuttosto bene l’esistenza del proprio paese. Eppure, al primo Lieberman che (ri)entra nel governo, ecco che riparte il coro dei soloni occidentali che vogliono “salvare Israele da se stesso”. E si stupiscono pure di non trovare molto ascolto in Israele.

(Da: informazionecorretta.com, 5.6.16)