Come al solito, di fronte a un problema i capi palestinesi cercano di incolpare il cattivissimo Israele

La cooperazione anti-coronavirus tra Israele e palestinesi era incoraggiante, ma Autorità Palestinese e Hamas sono subito tornate alle calunnie antisemite e alla repressione del dissenso

Di Jonathan S. Tobin

Jonathan S. Tobin, autore di questo articolo

Un paio di settimane fa è successa una cosa molto insolita. Le Nazioni Unite hanno elogiato Israele. La causa di questa rarissima eccezione alla regola generale dell’organismo mondiale di dare sempre addosso a Israele è stata la cooperazione tra Israele e Autorità Palestinese nel fronteggiare la pandemia da coronavirus. Alla fine di marzo lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha portato ad esempio il modo in cui le due parti in conflitto avevano messo da parte i loro attriti nello sforzo comune di ridurre al minimo la diffusione del virus tra Israele e Territori.

Ma molto può cambiare in due settimane. Messi di fronte alla stessa frustrante sfida che sta mettendo a dura prova ogni altra autorità di governo del mondo, i palestinesi hanno deciso che la cosa più facile da fare, anziché affrontare a viso aperto la pandemia, è darne la colpa al loro solito capro espiatorio. Il primo ministro dell’Autorità palestinese Mohammed Shtayyeh ha accusato i soldati israeliani di spargere volutamente il virus sulle auto dei palestinesi. Secondo un servizio del Canale 12 israeliano, questo non era che uno dei tanti atti di istigazione da parte dell’Autorità Palestinese. Anziché riconoscere che la pandemia è un problema medico che trascende il conflitto, l’Autorità Palestinese sta facendo quello che fa sempre di fronte a un problema che mina la sua credibilità: sposta tutto il discorso sulle presunte colpe del cattivissimo Israele. Ora il Ministero della sanità dell’Autorità Palestinese cita sul suo sito web ufficiale “lo stato di occupazione” come la causa di tutti i casi confermati di coronavirus in Cisgiordania.

Tutto ciò sarebbe patetico in ogni altra circostanza, ma è particolarmente inquietante quando vi sono persone che muoiono. Invece di affrontare un virus intrattabile, che si è dimostrato capace di resistere agli sforzi anche dei governi che erano pronti a riconoscere il pericolo e ad adottare energiche misure per contenerlo (come è avvenuto con Israele), i presunti “moderati” della scena politica palestinese preferiscono diffondere il virus della calunnia del sangue antisemita.

Operatori della sanità palestinese disinfettano al valico di Tarqumiya i lavoratori pendolari che rientrano da Israele in Cisgiordania

Nonostante i miliardi in aiuti economici e umanitari confluiti sia nella Cisgiordania governata da Fatah che nella striscia di Gaza controllata da Hamas, le strutture mediche di entrambe le aree sono in cattive condizioni. L’Autorità Palestinese e il suo presidente Abu Mazen hanno incanalato gran parte di quel denaro nella corruzione. Hamas spende i soldi che arrivano a Gaza per rafforzare continuamente la sua capacità di compiere terrorismo. Quando anche il sistema sanitario israeliano, di gran lunga meglio gestito di quello palestinese, è al limite delle sue capacità, la prospettiva di una diffusione del virus nei Territori è spaventosa. Ma dal momento che la politica palestinese è sempre stata incentrata sull’odio contro gli ebrei e Israele con poca o nessuna attenzione per la vera governance, Fatah e Hamas reagiscono a questo disastro della salute pubblica ricorrendo alla loro tradizionale capacità iperbolica di spargere menzogne sulla perfidia israeliana.

Il problema è che, ora che l’economia di Israele è chiusa e l’intero paese è bloccato (la disoccupazione in Israele è passata in meno di due mesi dal 4% al 26,1% ndr), i palestinesi autorizzati a lavorare in Israele tornano a casa. Come qualsiasi gruppo non al riparo dalla pandemia, è probabile che alcuni di questi pendolari portino con sé il virus. Israele ha donato all’Autorità Palestinese test tampone e corsi di formazione, e le ha trasferito 25 milioni di dollari in fondi fiscali che Gerusalemme tratteneva a causa del sostegno finanziario al terrorismo che il governo di Fatah garantiva (e continua a garantire). Purtroppo né Israele né l’Autorità Palestinese dispongono di abbastanza tamponi per testare tutti i lavoratori pendolari palestinesi. E’ chiaro che, al loro rientro, dovrebbero ricevere la direttiva di mettersi in quarantena. Ma tutto ciò che fa l’Autorità Palestinese, a quanto risulta, è spruzzare di alcol i loro vestiti e i loro soldi prima di mandarli a casa dove, ahimè, alcuni di loro probabilmente infetteranno famigliari e vicini. Sembra che Fatah abbia cercato di applicare alcune misure di distanziamento sociale, ma poi ha non solo tollerato bensì addirittura organizzato clamorose violazioni come un raduno di massa a Jenin per dare il benvenuto a un terrorista scarcerato da un penitenziario israeliano. Tutto questo è tragico, ma non è colpa di Israele.

Dalla pagina di Fatah su Facebook del 24 marzo: raduno di massa a Jenin per dare il benvenuto a un terrorista scarcerato da Israele

La situazione richiederebbe la massima cooperazione per contenere l’impatto della malattia. Per questo alcuni hanno invocato maggiori aiuti ai palestinesi e la fine del blocco internazionale anti-terrorismo sulla striscia di Gaza. Ma poiché l’unico modo di rispondere ai problemi che Autorità Palestinese e Hamas conoscono è scagliare invettive contro Israele, non sorprende affatto che sostengano che i loro problemi sono frutto di una qualche forma di complotto ebraico. Se altrove le teorie complottiste antisemite imbastite da odiatori di ebrei folli e marginali si diffondono via internet, la differenza in questo caso è che sono le stesse autorità palestinesi che giocano la carta dell’antisemitismo.

Come in Israele e in ogni altro paese, molti singoli palestinesi si adoperano per aiutare. Altri cercano di usare internet per superare incomprensioni e trovare un terreno comune con gli israeliani. È quello che è successo a Gaza, dove un piccolo gruppo di giovani palestinesi si è incontrato in videoconferenza con coetanei israeliani per parlare del virus e di altri problemi: un evento che si sarebbe potuto considerare la nascita di un movimento per il dialogo e la pace sulla falsariga di quello che esiste da decenni in Israele, se non fosse che è stato immediatamente represso e demolito dal terrorismo e dal rifiuto palestinese. Ma il destino toccato a Rami Aran, l’organizzatore della teleconferenza con gli israeliani, è tanto triste quanto prevedibile: non se ne sa più nulla da quando gli agenti di Hamas lo hanno arrestato. Né il New York Times, che per primo ha dato la notizia, né altri mass-media autorizzati a operare a Gaza sanno quanti altri partecipanti palestinesi all’incontro virtuale hanno subito una sorte simile.

Con il suo tragico impatto, la pandemia dovrebbe convincere molte persone a superare l’odio privo di senso. Ma nel caso di coloro che governano i palestinesi, la crisi del coronavirus è business as usual: calunnie antisemite e repressione del dissenso pacifico.

(Da: jns.org, 13.4.29)