Lupi non tanto solitari

L'Autorità Palestinese non ha nulla a che fare con l’ultimo attentato, ma continua a fomentare il terrorismo con istigazione, glorificazione e finanziamenti

Di Yoav Limor

Yoav Limor, autore di questo articolo

Il mortale attentato terroristico di martedì scorso non lontano da Gerusalemme corrisponde a un modello ormai familiare, nell’ondata di terrorismo scoppiata con l’autunno 2015: un singolo terrorista tipo “lupo solitario”, caratterizzato da una serie di problemi personali che lo spingono a uccidere israeliani come scorciatoia per entrare nel pantheon dell’”eroismo” palestinese.

Finora le indagini dei servizi di sicurezza israeliani hanno rivelato che il terrorista, un 37enne originario del vicino villaggio palestinese di Beit Surik, non era molto diverso dalle centinaia che l’hanno preceduto. Messo di fronte a una problematica situazione domestica – la moglie, che lui picchiava, si era rifugiata nella propria famiglia in Giordania lasciandolo ad occuparsi dei quattro figli – ha deciso di uccidersi. Ma invece di porre fine alla sua vita come un qualsiasi signor nessuno, ha scelto la strada che lo avrebbe trasformato in un eroe palestinese e che avrebbe procurato significativi vantaggi economici alla vedova e ai figli che gli sarebbero sopravvissuti.

Non c’è dubbio che l’Autorità Palestinese non ha nulla a che fare con questo attentato e con questo terrorista, ed è persino probabile che i dirigenti dell’Autorità Palestinese disapprovino il gesto comprendendone le possibili conseguenze.

Le vittime dell’attentato di martedì scorso a Har Adar

Ma il sostegno che l’Autorità Palestinese garantisce al terrorismo in generale, con l’istigazione all’odio verso Israele dipinto come sentina di ogni male, con le mancate condanne accompagnate da immancabili giustificazioni, soprattutto con la costante glorificazione dei “martiri” e i vitalizzi elargiti alle famiglie di terroristi detenuti o uccisi: tutto questo non fa che spingere molti palestinesi a intraprendere la strada del terrorismo, sapendo che questo è il modo più sicuro per garantire a se stessi e alle proprie famiglie lo status, la dignità e i benefici economici riservarti agli eroi.

C’è voluto del tempo perché l’establishment della difesa israeliano elaborasse una risposta a questo fenomeno. Solo una combinazione fra forti azioni difensive dei militari in Cisgiordania e della polizia a Gerusalemme, aumentate misure di sicurezza, stretta collaborazione con le forze di sicurezza palestinesi (sebbene diminuita dopo la crisi del Monte Tempio) e sforzo tecnologico è riuscita a dare una risposta che ha significativamente ridotto il numero di attacchi terroristici. Particolarmente notevole è stato il lavoro sui social network, che ha permesso di individuare e tracciare giovani estremisti e cogliere gli indizi che segnalano attacchi imminenti, permettendo alle forze della difesa di fermarli prima che abbiano la possibilità di mettere in pratica i loro piani sanguinosi.

Da questo punto di vista, tuttavia, il terrorista di martedì scorso era diverso. Né giovane né particolarmente attivo sui social network, non corrispondeva al profilo del terrorista medio. Al contrario, era un uomo sposato vicino ai 40 anni, padre di quattro figli, senza precedenti in fatto di reati contro la sicurezza né alcuna affiliazione nota a gruppi organizzati, e aveva avuto più volte confermato il  permesso di lavoro in Israele. Giacché da anni lavorava nella comunità ebraica di Har Ada, è possibile che alcuni degli addetti alla sicurezza, poi diventante sue vittime (fra i quali anche Youssef Ottman, arabo israeliano di Abu Gosh), lo conoscessero piuttosto bene o perlomeno l’abbiano riconosciuto come un pendolare consueto e si siano lasciati avvicinare con troppa confidenza.

Amici e famigliari ai funerali di Youssef Ottman, martedì scorso ad Abu Gosh

L’inchiesta accerterà tutte le circostanze: dalle motivazioni del terrorista, a come si sia procurato la pistola e se avesse complici, alla dinamica esatta della micidiale sparatoria ecc. Ma certamente l’attentato potrebbe comportare cambiamenti nelle procedure, sottolineando come il nemico più grande degli agenti di sicurezza sia la routine. Se ci saranno cambiamenti nelle procedure, innanzitutto per prevenire una possibile ondata di attentati-fotocopia durante l’imminente periodo, sempre a rischio, delle grandi festività ebraiche, queste andranno a detrimento principalmente dei 130.000 palestinesi che lavorano in Israele. L’establishment della difesa fa sempre il possibile per evitare provvedimenti che possano essere interpretati come punizioni collettivi, sia perché le statistiche dimostrano che i palestinesi che lavorano si tengono a distanza dal terrorismo giacché hanno qualcosa da perdere, sia perché la coesistenza economica è il ponte principale che tiene in collegamento israeliani e palestinesi. Prima dell’attentato di martedì, Israele stava valutando la possibilità di aumentare il numero di permessi di lavoro rilasciati ai palestinesi. Ora questa misura verrà molto probabilmente sospesa, per non diminuire la sicurezza e perché un atto di terrorismo non deve mai risultare pagante. A lungo termine, però, Israele dovrà comunque riesaminare la questione, nella consapevolezza che eventuali difficoltà economiche in Cisgiordania legate a un aumento della disoccupazione non farebbero che spingere più palestinesi nel circolo vizioso dell’istigazione, dell’odio e del terrorismo.

(Da: Israel HaYom, 27.9.27)