Ma qual è l’obiettivo degli arabi palestinesi?

Continuare a urlare che si spalancheranno le porte dell'inferno può essere gratificante, ma non porta a nessun risultato concreto

Di Yoav J. Tenembaum

Yoav J. Tenembaum, autore di questo articolo

Gli arabi palestinesi devono decidere qual è il loro obiettivo. Gli slogan non serviranno allo scopo. Sembra che aspirino più a ottenere soddisfazione emotiva che risultati concreti. Ad esempio, assicurarsi un gran numero di risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano Israele o esaltano la loro causa nazionale, e minacciare fino alla nausea di trascinare Israele e israeliani davanti a tribunali internazionali, sono cose che non hanno nessun effetto positivo sulle condizioni degli arabi palestinesi. E urlare a gran voce che si spalancheranno le porte dell’inferno ogni volta che qualcuno fa qualcosa che contrasta con la loro narrativa aggiunge forse una dimensione poetica (o patetica) alla loro causa, ma nient’altro. Imporre pre-condizioni per qualsiasi negoziato con Israele, e abbandonare i negoziati ogni volta che conviene, non ha migliorato granché la posizione negoziale degli arabi palestinesi rispetto a Israele.

Hanno avuto otto anni di un’amministrazione americana molto ben disposta, sotto la guida del presidente Barak Obama, e li hanno inutilmente sprecati. Gli è stata offerta l’opportunità di tentare di dare vita a un processo diplomatico che fosse conveniente per loro, e non l’hanno fatto. La dirigenza araba palestinese ha continuato a zigzagare dalle pre-condizioni alle post-condizioni, dall’asserire ciò che Israele deve fare prima dei negoziati all’esigere che Israele accettasse ulteriori condizioni dopo che i negoziati erano iniziati. Ma c’è un limite a quanto gli arabi palestinesi possono incolpare Israele per qualsiasi cosa vada loro storta.

Ora hanno trovato un altro colpevole: gli Stati Uniti. Il loro modo di comportarsi con gli Stati Uniti è singolare, sebbene a suo modo coerente: anziché cercare di modificare le cose a proprio vantaggio, se ne stanno in disparte ad accusare, recriminare e boicottare. Il presidente Donald Trump ha detto in modo chiarissimo che il riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele non predetermina i futuri confini della città. E ha anche chiarito che, per questo risultato, Israele avrebbe dovuto “pagare” (in termini di concessioni). Come mai gli arabi palestinesi non erano lì a esigere tale “pagamento”?

Quanto veramente vogliono uno stato gli arabi palestinesi? Abu Mazen: “Non cederemo mai sul diritto al ritorno, vogliamo uno stato sui confini del ’67, non accetteremo mai uno stato senza Gerusalemme, non riconosceremo Israele come stato ebraico, ci rifiutiamo di negoziare se Israele non ferma tutte le attività negli insediamenti” – Chaim Weizmann: “Accetteremo uno stato anche se fosse delle dimensioni di una tovaglia”

Gli arabi palestinesi sono responsabili del loro destino non meno di chiunque altro. Entro certi limiti, hanno libertà di scelta. Il problema è che sanno che, per quante cantonate piglino e per quante occasioni perdano, nella comunità internazionale ci sarà sempre una maggioranza automatica che li sostiene. Un fatto che procura loro ben scarsi successi concreti, ma certamente garantisce loro una notevole soddisfazione emotiva.

Se il movimento sionista avesse commesso anche solo una minima parte degli sbagli commessi dagli arabi palestinesi dal 1947 in poi, a quest’ora sarebbe già stato consegnato all’oblio. Gli arabi palestinesi si comportano come se fossero immuni da un tale destino, come se potessero permettersi di sbagliare tutte le volte che lo vogliono. Dopotutto, possono sempre incolpare Israele e ottenere l’abituale sostegno automatico nelle organizzazioni internazionali.

La loro strategia volta a stremare Israele è fallita. Credevano che gli attentati contro i civili israeliani ne avrebbero indebolito la risolutezza (e qui bisogna ricordare che Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Palestinese, è stato costantemente contrario al terrorismo dai tempi degli Accordi di Oslo del 1993). Credevano che una virulenta campagna ostile diplomatica e legale avrebbe indebolito la posizione internazionale di Israele; che boicottare i prodotti israeliani avrebbe indebolito l’economia israeliana; che minacciare di sprofondare la regione nell’odio e nella violenza avrebbe indebolito il controllo israeliano su Gerusalemme e altre aree.

Se preferiscono aspettare che Israele scompaia dalla realtà o che si indebolisca talmente da poterlo cancellare, molte altre generazioni di arabi palestinesi continueranno ad acclamare, inneggiare e annunciare l’apertura delle porte dell’inferno, mentre gli israeliani continueranno a svilupparsi, diventando ancora più forti e di successo. Certo, il successo non è garantito nemmeno alle persone più capaci, come sanno bene gli arabi palestinesi. Israele potrà avere i suoi alti e bassi; agli israeliani potrà capitare di soffrire ancora.

Risposte palestinesi alle offerte di pace israeliane. 1937: No alla spartizione Peel. 1947: No alla spartizione dell’Onu. 2000: No a Camp David. 2001: No all’accordo Taba/Clinton. 2005-6: No al disimpegno/riallineamento. 2008: No al piano Olmert. 2010-14: No ai negoziati del Quartetto. Quante volte puoi dire no alla pace e continuare a sostenere di volerla?

Ma la domanda è: come vedono il proprio  futuro gli arabi palestinesi? Intendono determinare l’estensione del loro destino nazionale definendo i limiti del destino nazionale di Israele? Il loro obiettivo non dovrebbe essere rappresentato in termini positivi anziché negativi? Qualsiasi successo conseguano gli arabi palestinesi nell’arena internazionale è effimero e difficilmente dà frutti.

Spetta a loro decidere se desiderano continuare ad aspettare passivamente un futuro migliore fino alle calende greche, o decidere di plasmare attivamente il loro ambiente politico in modo costruttivo. Certo, qualsiasi leader che volesse farlo dovrà affrontare gran parte della comunità araba palestinese contraria a qualsiasi compromesso, strenuamente attaccata a una narrativa nazionale emotivamente edificante ma politicamente distruttiva. Tuttavia, che esita o meno un tale leader, rimane il fatto che anziché creare un ethos nazionale positivo con cui mandare avanti il proprio popolo, finora la dirigenza palestinese ha preferito aderire a una memoria collettiva negativa che porta quel popolo in un vicolo cieco politico e diplomatico. Per parafrasare Winston Churchill, mai così tanti hanno goduto di così tanto sostegno internazionale per ottenere così poco.

(Da: Jerusalem Post, 10.2.18)

Si veda anche: Rifiuto, odio, violenza. E’ questa la “nuova strategia” della futura leadership palestinese?