Meir Shalev

Brano tratto da un suo libro

image_143Sono costretto a far da antiquario di me stesso

Un brano tratto da: Meir Shalev, “Il pane di Sarah”, trad. di Elena Loewenthal, Frassinelli, Milano 2000. Per gentile concessione della Casa Editrice Frassinelli.

Un giorno, se mai ci incontreremo, sedurro’ anche te con il marzapane di Dudutch. Da Myriam Deli, la pasticceria vicina a casa mia, ho trovato un giorno quell’imbroglio colloso che osano chiamare marzapane di Toledo, e mi sono preso la soddisfazione di mortificarlo e di coprire di sarcasmo la padrona del negozio, sinche’ questa non e’ scoppiata in una sonora risata e quasi inavvertitamente mi ha deposto una mano sul braccio. E’ una donna sulla quarantina, allegra e di bell’aspetto, che mi rassomiglia non poco per statura e colori, cosi’ le ho raccontato del marzapane di mia zia: delizia pallida, grande consolazione, vizio assoluto, l’unico dolciume che le donne gustano ridendo.
“Il marzapane e’ il piu’ puro, semplice e sublime di tutti i dolci”, ho citato “La piccola enciclopedia della cucina” di Otto Gustin, oltre a Gregorio VII, il quale prima di diventare papa e di essere sepolto nella biblioteca del castello di sua madre, aveva scritto: “Fra i peccati dolci e’ rinomata la leccornia di Lubecca, composta di due ingredienti soltanto – mandorle e zucchero – che non sono contrapposti per natura bensi’ soltanto per la necessita’ di questa loro esistenza comune”. Benche’ non lo nomini esplicitamente, quasi tutti gli studiosi concordano sul fatto che di marzapane si tratti.
Sulla fronte della pasticciera ho notato una fila di puntini rossi che parevano il doloroso lascito di una scolopendra o delle punture di spine. Sentendo i miei occhi piantati addosso, s’e’ imbarazzata. A tredici anni, cosi’ mi ha raccontato, mentre stava andando a messa con i suoi genitori, aveva per sbaglio masticato il pane santo che il prete le aveva messo sulla punta della lingua. La bocca allora si era riempita di una salamoia calda, il colletto della camicia era arrossito tutto e vent’anni dopo erano comparsi quei puntini sanguigni sulla fronte.
“Aveva davanti a se’ una carriera di santa”, ho commentato.
Lei e’ scoppiata a ridere. “Io no”, ha detto, e una linea cupa e accattivante si e’ tesa d’un tratto fra gli occhi “lo sa Iddio quanto non lo sia”.
Le ho comprato mandorle e zucchero, per tutta la notte non ho fatto che evocare le lezioni di Dudutch, e l’indomani a mezzogiorno sono tornato al suo negozio. Le ho sventolato davanti il pacchettino, dicendo: “La coppia ideale e’ formata da un uomo con marzapane e una donna con stigmate”.
Fra tutte le donne che ho conosciuto in America lei e’ quella che ho amato di piu’. Appena entro a casa sua preleva la dolce decima che sono tenuto a portarle e masticando e ridendo mi toglie tutti i vestiti di dosso, mi prende per mano e mi conduce alla doccia. Qui le consegno fiducioso i miei occhiali e allora lei mi striglia con il sapone e mi sciacqua con acqua bollente: non fa distinzione fra ricchi e poveri, non si tira indietro ne’ usa particolari riguardi. “Chiudi gli occhi”, e mi lava i capelli, mi asciuga con quelle mani forti sinche’ la mia pelle diventa rossa e poi mi conduce in camera da letto.
Facciamo l’amore sempre nello stesso modo. “Gli esperimenti sono per chi ancora non sa cio’ che e’ buono”, ride. Poi mi lascia dormicchiare un po’ nel suo letto e quando mi sveglio mi chiama a mangiare. Fa delle patatine fritte impagabili. Un giorno mi ha svelato il suo segreto: le frigge in olio di cocco. Quando ha tirato fuori dalla dispensa la latta di olio con la vetusta etichetta sono scoppiato a ridere. Da allora l’ho soprannominata “Madame Cocosin” e a lei non piace affatto.
Un giorno le ho preparato un melezik di prelibatezze racimolate nel suo negozio: una tavola con sopra olive nere tirate fuori da una scatola che ho asciugato nel sale grosso, del formaggio grasso annegato in olio d’oliva toscano, ciambelline croccanti, le acciughe di Zoga, kabanos di San Sebastiano secchi e piccanti. Abbiamo trascorso due piacevoli ore con qualche bicchiere di raki. Spero che adesso tu non stia ridendo ne’ abbia a sospettarmi di nostalgia. Anche quel tavolo di squisitezza altro non era se non un banale esercizio di memoria, come il vassoio di gioielli con il quale Lurgan Sahib mise alla prova la memoria di Kím. In fondo si affastellano in me tanti di quei fatti privi di senso e scopo, che mi trovo costretto a far da antiquario di me stesso, a frugare in quelle soffitte, soffiare via nugoli di vapore e polvere, finche’ Mnemosine si staglia davanti ai miei occhi e sventola per me la sua gonna.
“Parla, memoria”. Parla e non smettere piu’. Attingi al pozzo profondo del passato di Thomas Mann, salpa per il caldo mare di Melville, taglia nella carne viva del profeta Geremia. Riposa nell’ambra, flotta nel vetriolo. Joseph Conrad, dal fondo della gola di Marlowe, mi ha detto: “Pensavo che la memoria di Kurtz fosse quando i ricordi si raccolgono insieme nella vita di un uomo: pressione profonda sul cervello, ombre che cadono nel loro ultimo fuggifuggi”. Sant’Agostino la paragona a un deposito di merci, un campo vasto, un palazzo immenso in cui non fa che incontrare se stesso.
E io non faccio che esplorare le grotte della mia memoria, passare a fuoco le sue pepite grezze, pulire le sue grondaie togliendo le foglie secche. Quand’ero piccolo mamma apriva poco poco il rubinetto per incitare me e Yaakov a fare pipi’. Anche adesso mi basta un leggero solletico a una papilla gustativa, al labirinto acustico, a una cellula olfattiva, a un bastoncello retinico. Mi basta un ricciolo di capello, vago e malizioso, e il mio sguardo s’avventa dalla testa della donna che passa al candore della sua spalla. Mi basta una colonna rossa di polvere, un suono sordo e metallico di campana.