“Mi sono sempre sentito a casa mia”

Certi nuovi sociologi ne saranno delusi, ma il melting pot israeliano è una storia riuscita

Da un articolo di Sever Plocker

image_2082Mi sono sentito israeliano sin dall’istante in cui i miei genitori, benedetta sia la loro memoria, mi portarono in Israele, cinquant’anni fa. Sì, sono già passati 50 anni.
Non mi sentivo meno israeliano dei miei amici nel campo di transito, che provenivano dall’Iraq, dall’Ungheria, dal Marocco o dalla Russia. Né mi sentivo meno israeliano dei miei coetanei nati in questo paese, che studiavano con me a scuola e all’università e che, come me, affrontavano l’impegno del servizio militare.
A costo di deludere tanti nuovi sociologi, devo dire che non mi sono mai sentito respinto, disprezzato, inferiore o invidioso dei miei amici nati in Israele. Non c’è mai stato un solo momento in cui non mi sia sentito a casa mia.
Difficoltà con la lingua? Ebbi dei problemi, con la lingua. Ma l’ebraico – è un segreto di pulcinella – non è una lingua difficile.
Ricordo con nostalgia i viottoli del campo di transito, i versi degli sciacalli vicini alla nostra baracca, i falò e il mio primo appuntamento, accompagnato dall’inebriante profumo dei frutteti. Sì, questo era un paese nuovo per me. Ma non era un paese straniero.
Per questo resto sorpreso quando mi capita di leggere le dozzine di libri e articoli comparsi negli ultimi anni ad opera di ex immigrati bambini sulle terribili difficoltà dell’integrazione che hanno dovuto sperimentare dopo il loro arrivo in Israele, e sullo scontro culturale che ebbero con i loro arroganti interlocutori nati in Israele. E resto sorpreso a leggere dei traumi che si sono portati dietro per il resto della loro vita.
Non ho avuto la fortuna di passare attraverso, o di essere formato da esperienze così incise nella coscienza, reali o immaginarie che fossero. Non sono portatore di alcun trauma da integrazione, e non potrete cavarmi fuori nessuna rimossa memoria delle umiliazioni dell’immigrato.
Non venni umiliato, e non ero nemmeno un immigrato. Ero il figlio di una famiglia di ebrei appena “saliti” in Terra d’Israele che vivevano molto al di sotto della linea di povertà, e mi sentivo parte integrante della israelianità tutt’attorno a me.

(Da: YnetNews, 14.04.08)

Nella foto in alto: Campo di transito per nuovi immigrati in Israele, negli anni ’50