Mohammed al-Durra: il mito del martire bambino

Solo dopo 4 anni France 2 ha ammesso che l'unico testimone oculare aveva ritrattato le sue accuse.

Di Stephane Juffa, su Wall Street Journal

image_539Una delle prime cose che si trova quando si lancia su Google il nome Mohammed al-Durra è una poesia scritta dallo sceicco Mohammed degli Emirati Arabi Uniti dedicata “All’anima del martire bambino”. Il che dà un’idea delle proporzioni mitiche che ha assunto in Medio Oriente la vicenda di questo ragazzino. Le immagini del piccolo al-Durra rannicchiato dietro il padre sotto il fuoco israeliano, nei primi giorni della “seconda intifada”, per poi essere colpito a morte dei proiettili nemici, hanno scioccato il mondo intero. Per moltissimi arabi e musulmani Mohammed al-Durra è assurto a simbolo delle sofferenze dei palestinesi sotto il giogo dell’occupazione israeliana.
Sulla televisione e sui libri di testo scolastici dell’Autorità Palestinese al-Durra viene costantemente proposto come modello, per spronare altri ragazzi a emulare il suo spirito di sacrificio. Anche in occidente quelle foto, insignite di molti premi giornalistici, sono diventate il simbolo più riconoscibile dell’aggressione israeliana.
Eppure sotto a tutta la vicenda c’è un imbroglio, anche se i nostri lettori troveranno difficile credere che quelle famose immagini possano essere frutto di una messa in scena.
Tornerò più avanti su come sia stato dimostrato che non possono essere stati i soldati israeliani a uccidere il ragazzino. Ma qualcuno potrebbe domandarsi perché la cosa abbia ancora importanza. In fondo, dopo quel giorno, sono morti tanti altri innocenti, da entrambe le parti, ed è tempo, ora, di guardare avanti. Invece importa, e proprio per questa stessa ragione. Mohammed al-Durra è diventato molto di più del ragazzino-poster della seconda intifada. Secondo il rapporto Mitchell, stilato nel maggio 2001 da una commissione congiunta euro-americana, la vicenda di al-Durra è stata uno dei fatti che hanno contribuito a infiammare l’intifada. Se vogliamo la pace abbiamo bisogno di riconciliazione, e se vogliamo la riconciliazione abbiamo bisogno della verità. Ma l’emittente televisiva statale francese France 2, che ha prodotto e diffuso la disgraziata sequenza, si rifiuta di rendere di pubblico dominio tutti i fatti ad essa relativi.
La vicenda inizia il 30 settembre 2000, due mesi dopo che Yasser Arafat se ne è andato dai colloqui di pace di Camp David. Il luogo è l’incrocio Netzarim, nella striscia di Gaza, dove soldati israeliani sono posizionati a difesa del vicino insediamento. Mentre una folla di rivoltosi palestinesi lancia sassi e bombe molotov, confusi fra di essi altri palestinesi fanno fuoco con armi da guerra verso gli israeliani. È durante questi scontri che sarebbe rimasto ucciso il ragazzino.
Sostenendo di non voler lucrare sulla morte di un piccolo innocente, France 2 distribuisce gratis ai media di tutto il mondo le drammatiche immagini del fatto. L’esercito israeliano si affretta a diffondere una dichiarazione nella quale dice che il ragazzino potrebbe essere stato ucciso involontariamente dai soldati durante l’intenso fuoco incrociato. Solo più tardi, forse troppo tardi, l’esercito autorizza un’indagine completa. Il compito viene affidato al fisico civile Nahum Shahaf, il quale dimostra scientificamente che – data l’angolatura della postazione israeliana rispetto a quella di Mohammed al-Durra – i soldati non potevano aver ucciso il ragazzo. Shahaf scopre poi un incredibile retroscena: dal momento che i colpi devono essere venuti perpendicolarmente da una posizione posta dietro o a fianco del cameraman, tutta la scena della presunta uccisione potrebbe essere frutto di una messa in scena. E il ragazzo che si vede nel filmato potrebbe non essere stato affatto ucciso in quella circostanza. Visionando il filmato alla moviola, l’esperto intravede persino il dito del cameraman che fa il tipico segnale “take two” (“seconda ripresa”) usato dai professioni del mestiere per indicare la ripetizione di una scena.
Tre anni fa ho intervistato Shahaf e, dopo aver preso visione di tutte le sue prove, ho capito che potremmo trovarci di fronte a una delle più grandi opere di manipolazione dei mass media che si sia mai vista. Abbiamo allora avviato una nostra inchiesta, scrivendo più di quindici articoli sull’argomento, e la nostra conclusione è che il reportage francese è, oltre ogni ragionevole dubbio, pura fiction.
Non è possibile, qui, citare tutte le prove che abbiamo potuto raccogliere a partire dai risultati di Shahaf. Ma, giusto per dare un’idea: abbiamo le testimonianze dei dottori Joumaa Saka e Muhamad El-Tawil, due medici palestinesi dell’ospedale Shifa di Gaza, i quali affermano che il corpo senza vita di Mohammed al-Durra venne portato loro prima delle 13.00. Il problema è che Charles Enderlin, il corrispondete da Gerusalemme di France 2, nel reportage in questione sosteneva che la sparatoria era iniziata alle 15.00. Come può una persona esser uccisa da proiettili che vengono sparati alcune ore dopo la sua morte? E questa non è che una delle tante domande a cui la tv di stato francese deve ancora rispondere.
Nella nostra battaglia con France 2 ci siamo concentrati sulle dichiarazioni dei due giornalisti che hanno girato il reportage. Per comprendere bene l’importanza di queste dichiarazioni bisogna premettere che le immagini del reportage, in se stesse, non forniscono alcuna prova delle accuse mosse a Israele: nel filmato non si vede nessun soldato israeliano, nessuna arma (israeliana o di altri), nessuna ferita, non una goccia di sangue. Ciò nonostante, fonti ufficiali palestinesi sostengono che Mohammed fu ucciso da tre proiettili ad alta velocità e che il padre, Jamal al-Durra, venne ferito da nove proiettili. Ciò che ha trasformato quelle immagini in una moderna versione della “calunnia del sangue” contro Israele è la voce fuoricampo di Enderlin. Sebbene Enderlin non fosse a Gaza quando avveniva il fatto, egli spiega agli spettatori con grande sicurezza che “i colpi vengono dalla postazione israeliana: ancora una raffica e il ragazzino sarà morto”.
Forse per supplire alla mancanza di vere prove nel filmato, i due autori del reportage, il cameraman palestinese Talal Abu Rahma (che lavora per France 2 e CNN) e lo stesso Enderlin, giornalista israelo-francese, hanno rilasciato delle dichiarazioni a supporto.
Abu Rahma l’ha fatto nell’ottobre 2000 con una dichiarazione scritta – sotto giuramento – nell’ufficio e alla presenza del legale Raji Surani, di Gaza (il testo è reperibile sul sito del Palestinian Center for Human Rights: www.pchrgaza.org/special/tv2.htm.). Abu Rahma descrive in dettaglio la presunta uccisione del ragazzo da parte dei soldati israeliani. Le parole che attirarono maggiormente la nostra attenzione sono le seguenti: “Ho passato circa 27 minuti a filmare l’incidente, che è durato per 45 minuti”. Questa affermazione è doppiamente importante. Primo: Abu Rahma diceva di avere un filmato di 27, minuti mentre fino ad allora France 2 aveva mostrato un filmato di 55 secondi e solo più tardi consegnò all’esercito israeliano materiale filmato per un totale di circa tre minuti e 26 secondi. Ciò è di enorme importanza, giacché il materiale mancante potrebbe gettare nuova luce su tutta la vicenda. Uno degli aspetti più strani di tutto l’affare è che tra le centinaia di persone presenti alla scena, comprese decine di altri fotoreporter, solo Talal Abu Rahma sostenne di essere stato direttamente testimone della presunta uccisione e di essere riuscito a filmarla. Secondo elemento: sostenendo che l’incidente era durato tre quarti d’ora, Abu Rahma rendeva molto più gravi le accuse rispetto al filmato. Prima della sua dichiarazione si poteva pensare che il ragazzo fosse rimasto disgraziatamente colpito nel fuoco incrociato. Ma se quindici militari israeliani individuano un innocuo ragazzino e gli sparano addosso per 45 interminabili minuti, allora si tratta di un crimine di guerra.
Enderlin aggiunse altri coloriti dettagli, affermando che la sequenza di 27 minuti contiene immagini dell’agonia del ragazzino troppo vivide per essere mostrate a tutti. “Ho tagliato l’agonia del ragazzo. Era troppo insopportabile: la vicenda era stata raccontata, la notizia era stata data. Quelle immagini non avrebbero aggiunto nulla”, dichiarò Enderlin al mensile francese Telerama nell’ottobre 2000.
Per anni abbiamo pregato France 2 di lasciarci visionare le immagini mancanti. Siamo vecchi giornalisti che operano da tempo in una zona assai difficile: certamente possiamo reggere la visione di quelle immagini “insopportabili”. Abbiamo spedito molte lettere raccomandate e fatto molte telefonate, suggerendo più volte di mettere a confronto le nostre risultanze con il reportage di France 2. Inutilmente. France 2 non ci ha mai permesso di vedere l’intero filmato.
L’ostruzionismo dell’emittente francese e i risultati della nostra inchiesta ci hanno portato alla convinzione che le immagini aggiuntive non esistono. Ne eravamo così sicuri che abbiamo pubblicato anche degli articoli in questo senso. Comunque, si è dovuto aspettare fino al 22 ottobre del 2004 prima che France 2 cedesse. In seguito a massicce pressioni politiche, l’emittente pubblica è stata costretta a invitare uno dei nostri collaboratori, Luc Rosenzweig, già caporedattore di Le Monde, a visionare gli inquietanti fotogrammi. Quel giorno Rosenzweig, insieme a Denis Jeambar, caporedattore de L’Express, e Daniel Leconte, ex reporter di France 2, vennero ricevuti nell’ufficio di Arlette Chabot, capo del News Department di France 2. Il nostro collaboratore esordì con la frase che avevamo attentamente preparato: “Sono venuto a vedere i 27 minuti dell’incidente, citati nella dichiarazione sotto giuramento di Abu Rahma”. A quel punto un rappresentante legale di France 2 disse a Rosenzweig e agli altri colleghi che sarebbero “rimasti delusi”. “Non sapevate – aggiunse Didier Epelbaum, consigliere del presidente di France Television (il dipartimento che presiede a tutte le emittenti pubbliche televisive francesi) – che Talal ha ritrattato la sua testimonianza?”. No, non lo sapevano. E come avrebbero potuto, dal momento che né la tv francese né il cameraman palestinese lo avevano mai detto pubblicamente? È incredibile con quale nonchalance France 2 abbia ammesso che il loro testimone chiave, anzi, il loro unico testimone oculare della presunta uccisione aveva ritrattato le sue accuse. Senza quella testimonianza crolla tutto il reportage, ma l’emittente si rifiuta di ammetterlo pubblicamente.
I 27 minuti di filmato che i tre giornalisti hanno potuto alla fine visionare non contenevano nessuna nuova immagine rilevante, ad eccezione di una che mostra il corpo senza vita del ragazzino in una posizione diversa da quella mostrata fino ad allora. Dunque il ragazzo si è mosso dopo la sua presunta uccisione? E che ne è stato delle immagini “insopportabili” dell’agonia di Mohammed al-Durra di cui Enderlin aveva speso liriche parole? Un miraggio, una totale invenzione.
Da allora ho continuato a porre a France 2 tre principali domande.
1) Come è possibile che, dopo essere stati colti a dare false testimonianze, i signori Abu Rahma and Enderlin non solo continuano a lavorare per quella emittente pubblica, ma continuano a coprire insieme proprio il conflitto arabo-israeliano?
2) Come è possibile che France 2 non abbia ancora informato il pubblico dei nuovi, significativi sviluppi nel caso di Mohammed al-Durra, come dovrebbe fare ogni seria agenzia d’informazione? Rifiutandosi di farlo, France 2 viola il suo stesso codice etico e deontologico.
3) E poi, ancora più importante: come è possibile che France 2 continui a sostenere il proprio reportage sebbene sia consapevole che è stato filmato da qualcuno che ha rilasciato falsa testimonianza e che, ritrattando tale testimonianza, ha di fatto cancellato l’intero impianto su cui si reggeva il reportage?
Per quattro anni France 2 ha tenuto nascosto il “filmato di 27 minuti” fingendo che contenesse immagini cruciali, mentre sapeva bene che entrambi i suoi giornalisti avevano semplicemente mentito. France 2 deve essere considerata responsabile di questa manipolazione: prima per aver diffuso un falso, e poi per non aver fatto ammenda.

(Stephane Juffa, direttore di Metula News Agency, su: The Wall Street Journal Europe, 26.11.04)

Nella foto in alto: la ricostruzione della scena.