Nava Semel

Un racconto di Nava Semel tratto dalla raccolta il cappello di vetro (Guida 2002) e il testo del suo intervento tenuto a Milano il 30 Ottobre 2002

image_167Fonda – un viaggio.

Un racconto di Nava Semel tratto dalla raccolta Il cappello di vetro (Guida 2002) e il testo del suo intervento tenuto a Milano il 30 ottobre 2002.

Nava Semel è una giovane scrittrice israeliana già nota in Italia grazie alla traduzione di due suoi libri per ragazzi, Lezioni di volo (trad. dall’inglese di A. Ragusa, Mondadori, Milano 1997) e L’esclusa (trad. di C. Lorenzini, Mondadori, Milano 1999). Recentemente è stato pubblicato dalla casa editrice Guida di Napoli un suo libro, Il cappello di vetro, che esprime con forza le tematiche che nei libri per ragazzi appaiono sullo sfondo, cioè prima di tutto la difficoltà dei sopravvissuti allo sterminio nazista ad inserirsi in una società che richiede che si continui a vivere, anche a costo di rimuovere il passato, e quindi i problemi della cosiddetta “seconda generazione”, dei “figli della Shoà” (si vedano su questo tema ad esempio i due studi Figli dell’Olocausto, di Helene Epstein e Non gli ho detto arrivederci, di Claudine Vegh, entrambi pubblicati da Giuntina). Si tratta pertanto di racconti per un certo verso avvicinabili a quelli di Savyon Liebrecht, quelli contenuti in Mele dal deserto (e/o, Roma 2001), e al suo romanzo Prove d’amore (e/o, Roma 2001).

Il libro di Nava Semel Il cappello di vetro è stato tradotto da Alessandra Shomroni e pubblicato dalla casa editrice Guida con una prefazione di Gabriella Steindler-Moscati.

Il racconto che segue, e che viene presentato ai lettori del nostro sito per gentile concessione dell’editore, è uno dei più brevi e densi della raccolta.

Di seguito il lettore troverà il testo dell’intervento di Nava Semel in una conferenza tenuta presso l’Università Statale di Milano il 30 ottobre 2002, organizzata dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità in collaborazione con l’Ambasciata Israeliana.

Fonda – un viaggio.

Eccomi qui, una giovane israeliana – l’anno prossimo compirò ventisei anni – che si ritrova all’improvviso seduta in una limousine nera, a fianco dell’attrice Jane Fonda.

Si è trattato di una coincidenza, uni di quei casi che capitano nella vita senza alcun motivo.

Fonda parla.

Non di Sinatra, di Bogart, di Dietrich o di Gable. Non enumera i suoi successi. Malgrado siano visibili su di lei. Mi rendo conto che sono rimaste solo crepe sottilissime nella facciata. Fonda parla di una donna di nome Ruhama Sasson, o come dice lei, poiché fatica a pronunciare quel suolo gutturale, Ruhama.

Questa Ruhama Sasson è una signora di circa sessant’anni che Fonda ha conosciuto nella sua città natale. Ebbene, dice Fonda, a vent’anni uscì da Dachau. A vent’uno si sposò e lei e il marito andarono in Israele. Laggiù ebbero quattro figli. Ecco una piccola storia a lieto fine. Tutto è terminato nel migliore dei modi. Sono trascorsi quasi quattro decenni e lei ha cresciuto i figli e si è presa cura della casa. Ha già dei nipoti e ha praticamente dimenticato. L’acqua scorre nel fiume e negli abissi regna il silenzio. Dal fondo dei pozzi non si levano voci, ci sono solo pietre con cui lei ha murato le aperture molto tempo fa.

Il marito di Ruhama Sasson è ora benestante e insieme si recano per qualche anno negli Stati Uniti come rappresentanti della nazione che si sta formando. In Israele rimangono i figli e le figlie ormai cresciuti e anche tre nipoti. Ruhama ha occasione di scoprire orizzonti nascosti. Ora gode di grande libertà, ha molto tempo a sua disposizione e la preoccupazione per il pane è ormai lontana. Ma proprio allora, fra gli agi e il benessere, le sue notti sono inquiete. In lei affiorano immagini di quel luogo ermeticamente chiuso in fondo alla memoria. Fino a quel momento non aveva ricordato veramente, non aveva guardato film e nel giorno della memoria, quando si tenevano cerimonie di commemorazione, non aveva acceso apparecchi televisivi o radiofonici e da essi non era sortito alcun suono. Li scollegava tutti. Perché non toccassero i punti nevralgici del luogo più riposto. Quando i figli le chiedevano perché non toccasse quel tasto lei rispondeva: “L’ho cancellato”. Gli strati del tempo lo hanno ricoperto, così pensava lei, in quella terra straniera era sazia, pulita, ben vestita, ma le sue lotti erano inquiete. “Le immagini sono così nitide”, si tormenta Ruhama Sasson, tuttavia non riesce a liberarsene. Si reca da un curatore dello spirito e gli chiede di dormire. Gli dice che il sonno è diventato per lei fonte di malessere e di grande disagio. “Avava paura ad addormentarsi”, racconta Fonda. È un’americana alta, dalle membra snelle, armoniose, ben modellate. Sento qualcosa di inevitabile insinuarsi nella sua voce.

“Com’è possibile?”, domanda, “come possono riaffiorare le immagini dopo tutto quel tempo?”

“No”, esclamo io. “È impossibile dimenticare”. Si possono solo rivoltare le cose, come un tappeto. Allora non si vede l’intreccio dei disegni sulla superficie. Ma è un’illusione. Anche sul retro il disegno delle forme si delinea come lettere di una lingua antica che solo pochi ricoradano come leggere. E nella testa di Ruhama Sasson si imbastisce la trama degli eventi che aveva sepolto nelle profondità degli abissi.

A Fonda, un’estranea ai cui due figli è negata l’innocenza dell’infanzia, dico: “Questa Ruhama Sasson è come mia madre”. SI chiude in se stessa nell’unico giorno dell’anno dedicato alla memoria.

Anche noi, i figli, ereditiamo quel dolore. Non in modo consapevole, volontario. SI riversa in noi già nell’utero, con i liquidi. Era capitato che avesse detto, angustiata: “Forse non avrei dovuto mettervi al mondo. Forse ho peccato nel generarvi”. Allora l’avevo abbracciata, ero già adulta.

Mi hai trasmesso l’odore della morte, forse con il latte, forse con il sangue, forse con il sogno, forse con le grida che ti sfuggivano la notte, agli inizi degli anni cinquanta. Ma forse tutti quelli non sono che scintille passeggere, impalpabili. Non invano frugo dentro di me per vedere se sono contaminata. Non invano lei invia campioni del suo sangue ai guaritori. Quel sangue non verrà mai purificato dalla memoria, dalla richiesta di perdono. lei non parla mai della sua infanzia. Pensa che sia capitata a qualcun’altra. Non collega la bambina con l’adulta, come se fossero divise da un baratro profondo.

Fonda ascolta. tesa come una corda di violino. “Noi tutte”, dico a Fonda, “siamo figlie di questa sua Ruhama Sasson”, e tutto il mondo è pieno di Ruhame Sasson che hanno partorito figli e ora chiedono perdono perché su di loro sono rimaste le macchie del sangue e l’odore della cenere.

Fonda chiude il finestrino della limousine nera e guarda fuori. Tace e taccio anch’io. Mi ricordo che sua madre è contaminata. Si è tagliata le vene dei polsi e se n’è andata. Lei posa le mani aride una sull’altra e le stringe. Le macchie di sangue e l’odore della cenere le sfiorano la mente. Guarda dal finestrino e non guarda più me.

[Per gentile concessione dell’editore Guida, Napoli]

Scrivere della Shoà.

Testo della conferenza tenuta da Nava Semel a Milano il 30 ottobre 2002.

(A cura di Anna Linda Callow)

Il 30 ottobre la scrittrice israeliana Nava Semel è stata ospite dell’Università degli Studi di Milano, dove, anche grazie alla collaborazione dell’Ambasciata Israeliana, ha tenuto una breve conferenza. Ne presentiamo ai nostri lettori il testo, rivisto da Anna Linda Callow.

Il mio nome è Nava, un nome biblico, ma non è altro che un travestimento, è infatti la traduzione in ebraico del nome di mia nonna, Sheyndl, perita nella Shoah. Nell’Israele degli anni Cinquanta dare a una bambina un nome yiddish sarebbe stato profondamente contrario all’ideologuia corrente. L’Israele degli anni Cinquanta era formata da sopravvissuti, rifugiati, immigranti che cercavano una nuova identità, un nuovo futuro, Sheyndl era un nome che parlava del passato.

Nella prima fase della mia scrittura sono sempre stata affascinata dalla dicotomia del nucleo famigliare israeliano. La vita della famiglia israeliana di quell’epoca si svolge su due binari: da una parte il presente, dall’altra il passato, un passato che si vorrebbe eliminare, ma nell’impossibilità di eliminarlo lo si passa sotto silenzio. La sua ombra aleggia ma nella famiglia c’è una sorta di patto tra genitori e figli: i figlio non chiedono del passato e i genitori non ne parlano. L’intento dei genitori non è dettato da un senso di vergogna, ma dal desiderio di proteggere i figli da qualcosa di profondamente negativo e nocivo, perché possano crescere sani nello spirito e proiettati versi il futuro.

Questo patto di silenzio iniziò a non essere più rispettato più o meno venti anni fa, parlo come rappresentante di un’intera generazione di israeliani che hanno avuto almeno uno dei genitori che era sopravvissuto alla Shoah. I primi racconti che scrissi, all’età di venticinque anni cercavano di descrivera il modo di vivere delle persone della mia generazione, ma questo non mi bastava, e fu così che un giorno mi ritrovai seduta nella cucina della mia infanzia, di fronte a mia madre, a rompere quel patto di silenzio: Mamma, che cosa ti è successo allora?

Non mi bastava più quello che avevo letto e sentito a scuola, durante le commemorazioni della Shoah, la storia generale la conoscevo, volevo che mi raccontasse la sua storia individuale.

La letteratura, così come io la concepisco, non è un’imitazione della vita, essa prende dei semi di verità dalla vita dell’autore e li porta alle estreme conseguenze. I personaggi dei miei libri non riflettono la mia vita, i miei non sono libri autobiografici, sono spunti di verità ma in una versione estremizzata.

Lo scrittore è come un pescatore seduto sulle rive di un lago oscuro, ma invece di pesci egli pesca ricordi, questo è il suo compito e la sua responsabilità, riscattare dall’oblio le memorie che altrimenti andrebbero perdute e trasmetterle alla generazione successiva. Già troppo è andato perduto, uomini, cose, non possiamo permetterci di perdere anche il loro ricordo, se non non lo trasmettiamo la loro voce non sarà più udita.

Desidero molto esprimere la mia gratitudine alla traduttrice del libro Il cappello di vetro (Guida, Napoli 2002), Alessandra Shomroni.

Noi scrittori israeliani dobbiamo essere molto grati ai nostri traduttori, noi amiamo la mostra lingua, ma pochi sono quelli che la conoscono, i nostri traduttori sono coloro che ci portano nel mondo.