Negli scatti di un fotoreporter di “Life”, la pulizia etnica che subirono gli ebrei di Gerusalemme est

Atrocità totalmente assenti dalla narrazione di mass-media e leader politici occidentali

Di Richard Pollock

Richard Pollock, autore di questo articolo

Mi sono imbattuto di recente in un libro fotografico realizzato da John Phillips, acclamato fotografo di guerra della rivista Life. Il grande volume dall’aspetto innocuo era intitolato semplicemente A Will to Survive (Volontà di sopravvivere). Ma dopo averne sfogliato le pagine, mi sono reso conto d’essere entrato in una sorta di capsula del tempo che rievoca la distruzione araba dell’antico Quartiere ebraico di Gerusalemme nel 1948.

Non si tratta solo di un drammatico resoconto di prima mano della caduta del Quartiere ebraico durante la guerra d’Indipendenza d’Israele. Il libro documenta anche le tattiche da terra bruciata adottate della Legione Araba che incendiò e rase al suolo quasi ogni struttura che vi si trovava, comprese tutte le antiche sinagoghe e yeshivà (seminari talmudici). Gli arabi espulsero tutti gli abitanti del Quartiere ebraico, per lo più vecchi ebrei ortodossi indifesi, ai quali concessero circa un’ora per raccogliere ciò che potevano e lasciare le case in cui la maggior parte di quelle famiglie allargate aveva vissuto per secoli. E non c’è mai stato nessun riconoscimento né risarcimento da parte di alcun organismo internazionale per la barbarie perpetrata della Legione Araba dopo la cattura del Quartiere.

Per scattare le sue foto nel maggio 1948, Phillips si mosse a Gerusalemme fingendosi un ufficiale britannico all’interno della Legione Araba. E dovette anche trafugare di nascosto i suoi scatti per evitare i censori arabi, determinati a mantenere segreto il saccheggio del Quartiere ebraico. Come tanta parte della storia israeliana, queste atrocità sono state cancellate dai mass-media e dai leader politici occidentali. I palestinesi rivendicano sempre a gran voce la “proprietà” della parte est di Gerusalemme, proclamando che è la loro “capitale”. Ciò che scompare regolarmente in mezzo a tutto quel vociare è che l’antico Quartiere ebraico coi suoi luoghi sacri si trova proprio nella parte orientale di Gerusalemme. Tanto per dire, è lì che si trova il il Kotel o Muro Occidentale, impropriamente noto come “Muro del Pianto”.

John Phillips

Dal 10 al 18 maggio di quest’anno, Hamas ha lanciato più di 4.000 razzi sui centri abitati israeliani per dare maggior forza a queste rivendicazioni palestinesi sulla città. Lo hanno fatto mentre si attendeva una decisione della Corte Suprema israeliana circa lo sfratto di alcuni palestinesi che a Sheik Jarrah occupano abusivamente case ebraiche nella parte orientale della città dopo che gli ebrei ne sono stati espulsi dalla Legione Araba (la Corte ha poi proposto una soluzione di compromesso, al momento respinta dai palestinesi ndr). A quanto risulta, l’amministrazione Biden ha intenzione di riaprire un “consolato” a Gerusalemme est che funga da “ambasciata” de facto presso i palestinesi (mentre potrebbe aprirlo nelle vicinissime Ramallah o Betlemme, che sono sotto Autorità Palestinese e la prima ne è la capitale de facto ndr). In generale, gran parte dei politici e dei mass-media occidentali avallano la rivendicazione palestinese su Gerusalemme senza tenere in alcun conto la storia dell’antico Quartiere ebraico della città.

La battaglia per il Quartiere ebraico di Gerusalemme Vecchia ebbe luogo dal 18 al 28 maggio 1948. Phillips rievoca il suo periodo trascorso nella Città Vecchia: “Nei successivi undici giorni, la mia vita sarebbe stata documentare la distruzione del Quartiere ebraico”.

John Phillips (1914-1996) è stato uno dei migliori fotografi della rivista Life per cinquant’anni. La National Portrait Gallery di Gran Bretagna lo ha definito il grandgodfather (nonno-padrino) del foto-giornalismo. Per scattare le sue foto, si espose personalmente al pericolo. Entrò in Medio Oriente sotto copertura, indossando l’uniforme della Legione Araba, un esercito arabo creato dai britannici e guidato da ufficiali britannici, molti dei quali rimasero con le loro unità per combattere contro gli ebrei. “Scambiandomi per un ufficiale britannico, gli arabi mi lasciavano stare”, scrive Phillips.

Rachel Levy, 7 anni, in fuga, mentre alle sue spalle i combattenti arabi si danno al saccheggio del quartiere ebraico dopo la caduta della Città Vecchia. Foto di John Phillips

Phillips rimase sconvolto dalla censura araba. “Consapevoli che il saccheggio del Quartiere ebraico avrebbe scioccato il mondo occidentale – scrive – le autorità arabe in tutto il Medio Oriente cercavano di impedire che la notizia trapelasse. Gerusalemme non doveva essere menzionata in nessuna circostanza. Sapevo che le mie foto dell’agonia del Quartiere ebraico sarebbero finite nel cestino della carta straccia di qualche censore. Non volevo che accadesse e decisi di farle uscire clandestinamente dal Medio Oriente”.

Il primo compito di Phillips fu quello di incontrare Fawzi al-Qawuqji, un fanatico arabo filo-nazista, comandante sul campo del cosiddetto Esercito di Liberazione Arabo, una spietata forza volontaria a sé stante, appositamente creata per combattere gli ebrei. Durante la seconda guerra mondiale, Fawzi aveva vissuto nella Germania nazista a fianco del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, ricoprendo il grado di colonnello della Wehrmacht, l’esercito tedesco. I nazisti gli avevano assegnato un’auto con autista e un appartamento, insieme ad altri privilegi. Impulsivamente, Fawzi invitò Phillips a fermarsi a pranzo con i suoi e il fotografoi scrive d’essersi vergognato per ciò che vide: “C’era una brutalità nel modo in cui scoppiavano a ridere e si battevano le cosce per la gioia, alla prospettiva di sguazzare nel sangue ebraico”. Successivamente, Phillips si imbatté in un mercenario jugoslavo che era stato presente a quel pranzo. “Che teppaglia – disse il mercenario, citato da Phillips – Non hanno idea di cosa sia un vero combattimento. Io sì. Ero con le Waffen SS”. Non era l’unico. I ranghi dell’Esercito di Liberazione Arabo comprendevano soldati smobilitati dall’esercito nazista della Wehrmacht, tra cui feroci SS, insieme a forze mercenarie filo-naziste provenienti da tutta Europa.

Phillips ammirava la determinazione degli ebrei. “Probabilmente il vecchio quartiere era indifendibile, ma lo difesero comunque – scrive – Quella era la Gerusalemme a cui gli ebrei di tutto il mondo chiedevano di tornare nelle loro preghiere”. L’atmosfera pre-bellica colpì molto Phillips, che pure era un fotografo veterano della seconda guerra mondiale: “Le armi venivano spacciate agli angoli delle strade arabe come se fossero arance di Giaffa. Disertori britannici, SS tedesche, mercenari polacchi e jugoslavi assoldati dagli arabi compivano atti di sabotaggio”.

La facciata della sinagoga e yeshiva Porat Yosef (a sinistra) in una foto pre-1948. Sulla destra, la sinagoga a cupola Tiferet Yisrael, anch’essa distrutta

Phillips percorse la città in compagnia di un disertore britannico e rimase scioccato dalla distruzione delle sinagoghe. “Ogni volta che ci fermavamo per riprendere fiato – scrive – mi sembrava di vedere dappertutto sinagoghe devastate”. Vide anche la distruzione della famosa sinagoga Porat Josef: “Da un punto vicino al Muro del Pianto potevo vedere la sinagoga Porat Josef che sorgeva a distanza, al di là della terra di nessuno. La sinagoga, con le sue annesse scuole religiose e l’accademia talmudica, si stava disintegrando in una nuvola di fumo. I suoi muri massicci crollavano in una cascata di detriti. Sbalordito da questo spettacolo di insensata distruzione, mi chiedevo quante tonnellate di tritolo l’Esercito di Liberazione Arabo avesse sprecato per ridurre in polvere quella sede di studio”.

La battaglia infuriò per undici giorni e undici notti. Il 28 maggio Gerusalemme vecchia cadde in mano agli arabi. “Quel giorno gli arabi si aprirono la strada nel Quartiere ebraico a colpi di artiglieria – scrive Phillips – Il 28 maggio i combattenti israeliani, stremati, si arresero”. Alla fine, il sindaco di Gerusalemme Mordechai Weingarten fu condotto a firmare la resa. La caduta del Quartiere ebraico era ormai ufficiale, ma la sua tragedia era solo all’inizio. “Se qualche ebreo avesse deciso di rimanere nella Città Vecchia – scrive Phillips – sarebbe rimasto senza casa nel giro di poche ore e probabilmente sarebbe morto entro la notte. La maggior parte dei civili erano ebrei ortodossi. Gli uomini portavano barbe e treccine, cappelli di feltro nero a tesa larga e lunghi cappotti neri. Le donne indossavano i foulard babushka. Erano i discendenti di famiglie che da secoli vivevano nel quartiere ebraico. Ora avevano soltanto un’ora per fare i bagagli e andarsene”. Phillips descrive i civili sbigottiti: “Sbalorditi dai bombardamenti, i civili raccolsero i loro averi e si trascinarono verso Piazza Ashkenazi”.

Il sindaco di Gerusalemme Mordechai Weingarten viene condotto da combattenti arabi a firmare la resa dell’antico Quartiere ebraico, che sarebbe rimasto precluso agli ebrei fino al giugno 1967 (guerra dei sei giorni). Foto di John Phillips

Dopo aver seguito la cacciata degli ebrei, Phillips tornò sui suoi passi per assistere al selvaggio saccheggio arabo e all’incendio doloso. “Civili arabi erano sopraggiunti a depredare, passando per i tetti come uno sciame di locuste. Al loro convulso passaggio scoppiarono incendi. Colonne di fumo nero uscivano dalle finestre e fiamme lucenti lambivano i balconi di legno. Adesso l’intero quartiere era in fiamme. L’odore di bruciato si mescolava al tanfo della morte”. Phillips continuò a seguire gli incendi che consumavano lo storico quartiere “come una pira”. “Il 29 maggio – scrive – il Quartiere ebraico era come un guscio vuoto e carbonizzato. Giù per Beit El un musulmano tutto fiero faceva strada, seguito dalla moglie a piedi scalzi che trasportava tre contenitori di legno di pergamene sefardite da una vicina sinagoga”.

Trent’anni dopo, nel 1976, Phillips pubblicò Survive (Sopravvivere). Molte delle sue foto vennero presentate all’Israel Museum di Gerusalemme. L’allora primo ministro israeliano Golda Meir scrisse una breve introduzione al libro. Con l’aiuto dell’allora sindaco di Gerusalemme Teddy Kollek, Phillips poté incontrare 51 dei sopravvissuti che aveva fotografato. Disse: “Ciò che mi ha colpito di più mentre parlavo con queste persone, dal rabbino capo di Haifa a una governante di Gerusalemme, è che nessuno di loro si è minimamente abbandonato all’autocommiserazione”.

Anche gli ebrei di oggi non cercano commiserazione. Ma dovrebbero chiedere giustizia. La rilevanza e la sacralità del vecchio Quartiere ebraico e la sua brutale distruzione da parte degli arabi devono essere ampiamente pubblicizzati. Ci deve essere un riconoscimento storico internazionale della pulizia etnica che subirono nel 1948. E la comunità ebraica deve difendere la verità storica e denunciare con forza le affermazioni infondate dei palestinesi sulla parte orientale della città.

(Da: jns.org,12.8.21)

Si veda anche: Come un’istantanea dalla Gerusalemme ebraica assediata nel 1948