Negoziato faccia a faccia o diktat dall’esterno?

Accettando l'iniziativa di Parigi, i palestinesi sperano ancora una volta di ottenere uno stato senza dover accettare i compromessi necessari

Editoriale del Jerusalem Post

Il presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen

Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen

I rappresentanti di più di venti paesi saranno convocati a Parigi, il 3 giugno, per una sorta di pre-conferenza internazionale incaricata di  pianificare una successiva conferenza internazionale di pace per l’autunno che a sua volta dovrebbe portare al riavvio delle trattative per risolvere il conflitto israelo-palestinese. I rappresentanti israeliani e palestinesi non sono invitati a questo primo incontro di Parigi, né è chiaro come saranno condotti i colloqui di pace in autunno.

Israele si oppone ufficialmente a questa iniziativa francese perché rifiuta il concetto di organizzare colloqui su come organizzare colloqui, proponendo piuttosto la convocazione immediata di negoziati diretti tra le parti interessate. Israele ritiene che questo approccio di gruppo ad opera di soggetti non interessati è destinato a fallire perché i palestinesi lo sfrutterebbero come un’ennesima scusa per evitare quei negoziati diretti su una soluzione a due stati ai quali si sottraggono con successo ormai da anni.

Durante il suo incontro la scorsa settimana con il suo omologo francese Manuel Valls, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Sono pronto a cancellare i miei impegni e volare a Parigi anche domani”, e ha aggiunto di sperare che l’offerta venisse raccolta dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), pur sapendo che non l’avrebbe fatto.

I palestinesi sfuggono alle offerte di negoziati diretti per la semplice ragione che essi si aspettano che i forum internazionali come l’imminente incontro a Parigi (per non parlare di quelli faziosi e di parte delle Nazioni Unite) impongano a Israele uno stato palestinese senza che l’Autorità Palestinese debba accettare anche solo uno dei compromessi che sarebbero necessari per sostenere un tale accordo.

“Una giusta pace non si raggiunge con le conferenze internazionali in stile Onu – ha detto Netanyahu al ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault – Non la si ottiene con i diktat internazionali né con commissioni fatte da paesi di tutto il mondo seduti attorno a un tavolo per decidere la nostra sorte e la nostra sicurezza senza che in esse abbiano alcun interesse diretto”. Israele, ha ribadito Netanyahu, è impegnato verso la soluzione “due stati per due popoli”, e ciò che intende con questo, ha specificato a Valls, è uno stato palestinese smilitarizzato che riconosca lo stato ebraico d’Israele.

La mappa pubblicata da Ha’aretz della proposta di stato palestinese avanzata da Ehud Olmert nel 2008 e rifiutata da Abu Mazen. Cliccare l’immagine per accedere a una versione più grande in .pdf

Se con il rappresentante francese Netanyahu si è espresso in modo diplomatico, con il suo pubblico aveva parlato in modo molto più franco lo scorso gennaio, nel mezzo dell’ondata di terrorismo palestinese allora in pieno corso. “Gli assassini palestinesi – aveva detto – non vogliono costruire uno stato: vogliono distruggere un stato. E lo dicono apertamente. Vogliono uccidere gli ebrei semplicemente perché sono ebrei, e lo dicono apertamente. Non uccidono per la pace e non uccidono per i diritti umani”.

Benché Israele resti impegnato verso il dialogo con la dirigenza palestinese e continua a chiedere il riavvio al più presto possibile di negoziati di pace diretti senza precondizioni, negli ultimi sette anni la dirigenza palestinese ha sistematicamente respinto tutte le proposte israeliane di negoziato diretto: un comportamento perfettamente coerente con il fallimento dei negoziati diretti causato da Yasser Arafat nel 2000. A Camp David 2000, l’allora primo ministro israeliano Ehud Barak avanzò una generosa offerta di pace che veniva incontro praticamente a tutte le richieste palestinesi. Arafat la respinse, e subito dopo i palestinesi lanciarono la seconda intifada. Nel 2008, l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert si spine più avanti con un’offerta ancora più ampia, alla quale Abu Mazen non ha nemmeno risposto.

Israele si è ritirato da vaste aree di territorio arabo nello strenuo tentativo di porre fine a un conflitto che – evidentemente – non riguarda il territorio. Ritirandosi (due volte) da tutto il Sinai, dal Libano meridionale e dalla striscia di Gaza, ha fatto concessioni dolorose (e rischiose) che, se finora hanno  ridotto in qualche misura le minacce, certo non hanno portato alla pace. “A Gaza non abbiamo semplicemente congelato gli insediamenti, li abbiamo sradicati – ha sottolineato Netanyahu parlando nel 2011 alle Nazioni Unite – Abbiamo fatto esattamente ciò che dice la teoria: andatevene, tornate alle linee del 1967, smantellate gli insediamenti”. Ma tutto questo non ha impedito lo scoppio della guerra con Hamas a Gaza nel 2006, 2009, 2012 e 2014. Abu Mazen ha detto all’Assemblea Generale dell’Onu che i palestinesi sono armati “solo delle loro speranze e dei loro sogni”. “Forse, ma anche di razzi Grad forniti dall’Iran – ha replicato Netanyahu – per non parlare del fiume di armi micidiali che ora affluiscono a Gaza dal Sinai, dalla Libia e da altre parti”.

L’Autorità Palestinese si rifiuta di condannare gli attentati palestinesi contro gli israeliani e celebra come eroi gli assassini di civili ebrei intitolando a loro nome parchi e strade, e garantisce incentivi economici alle famiglie dei terroristi. L’indottrinamento di un’intera nuova generazione di palestinesi, mediante una propaganda che non esita a ricorrere ai temi del più bieco antisemitismo, continua imperterrita nelle scuole palestinesi, piantando i semi del terrorismo futuro.

Accettando l’iniziativa di Parigi i palestinesi sperano ancora una volta di ottenere uno stato senza dover accettare i sacrifici e i compromessi che questo richiede. Ancora una volta, come disse Abba Eban, non perdono l’occasione di perdere un’occasione.

(Da: Jerusalem Post, 25.5.16)