Nei sogni di Obama, sauditi e iraniani dovrebbero “condividere il quartiere”

Per capire, bisogna ripassare almeno a grandi linee un pezzo di storia del Medio Oriente

Di Clifford D. May

Clifford D. May, autore di questo articolo

Clifford D. May, autore di questo articolo

Il presidente Barack Obama ha visitato la scorsa settimana l’Arabia Saudita, una nazione anomala con cui gli Stati Uniti hanno da tempo un rapporto che può essere ben definito sia strategico che singolare, e che adesso è piuttosto teso. Per capire come si sia arrivati a questo punto bisogna conoscere almeno a grandi linee un pezzo di storia contemporanea.

E’ buona educazione affermare che Ibn Saud, nel primo trentennio del XX secolo, ha unificato la maggior parte delle tribù che vivevano nella penisola arabica. Più esatto sarebbe affermare che Ibn Saud, cacciati gli hashemiti, sconfisse le tribù conquistando le loro terre e con esse la fonte di immensa ricchezza futura che giaceva sotto i loro piedi.

Ibn Saud si alleò con gli inglesi contro l’Impero Ottomano il cui sultano, con sede a Istanbul, era stato anche proclamato califfo, vale a dire sovrano dei musulmani di tutto il mondo. Ciò avrebbe minato la legittimità della casata Saud se essa non avesse stretto un accordo con i wahhabiti, fino a quel momento niente più che una piccola setta fondamentalista. I wahhabiti garantirono la propria benedizione ai sauditi, conferendo loro l’autorità per governare. In cambio, sarebbero stati lautamente finanziati e la loro interpretazione dell’islam sarebbe diventata la religione di stato.

Nel 1932 Ibn Saud diede il proprio nome ai suoi domini, che divennero il Regno dell’Arabia Saudita (al-Mamlaka al-ʿArabiyya al-Suʿūdiyya). Dopo la seconda guerra mondiale, nell’epoca del tramonto dell’Impero Britannico, i sauditi si rivolsero agli Stati Uniti. Da allora, il petrolio di cui i sauditi si erano appropriati sarebbe stato estratto e venduto a quegli occidentali che avevano sviluppato per esso usi produttivi, cioè che sapevano cosa farne. In cambio, gli Stati Uniti sarebbero diventati i difensori e protettori dell’Arabia Saudita.

Per alcuni decenni questo accomodamento funzionò passabilmente bene. Poi, nel 1979, intervennero due eventi cruciali. Il primo fu il rovesciamento dello Scià in Iran: una rivolta che, sotto la guida dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, si trasformò in una rivoluzione islamica. Ciò significava che il primo stato moderno votato a condurre la jihad globale era persiano e a maggioranza sciita: uno shock e un’umiliazione per molti nel mondo arabo e sunnita.

La carta Colton di Arabia e Persia, 1855 (clicca per ingrandire)

Poi, nel novembre dello stesso anno, mentre un manipolo di studenti fedeli all’ayatollah prendevano in ostaggio l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, la Grande Moschea della Mecca veniva occupata da quelli che si potrebbero definire degli ultra-wahhabiti. Domare quella sommossa fu una faccenda molto sanguinosa. Ma grazie al controllo saudita sull’informazione, gran parte del mondo ne ebbe notizia in modo solo vago e spesso inesatto. La storia completa sarebbe stata raccontata solo nel 2007 da Yaroslav Trofimov nel suo imprescindibile L’assedio della Mecca: la rivolta dimenticata, la nascita di al-Qaeda e la genesi del terrore. Alla luce dei successivi attentati dell’11 settembre, egli individuò in quell’episodio “la prima operazione su larga scala ad opera di un movimento jihadista internazionale nei tempi moderni”.

In risposta agli sconvolgimenti del 1979 si poteva pensare che i sauditi avrebbero contrastato, se non addirittura soppresso, i fondamentalisti ansiosi di combattere guerre sante. Pensarono bene, invece, di darsi da fare per dimostrare la loro buona fede jihadista collocando religiosi wahhabiti nelle moschee di tutto il mondo, istituendo madrase che preparavano i giovani a uccidere e morire per difendere e diffondere il “vero” islam, e finanziando i mujahidin in Afghanistan. Da questi semi sarebbero germogliati al-Qaeda e i suoi frutti, tra i quali lo “Stato Islamico” (ISIS): jihadisti che disprezzano i sauditi e gli altri musulmani che, secondo loro, si sottraggono al sacro dovere di colpire gli infedeli, gli apostati e gli eretici.

In seguito, perlomeno alcuni sauditi avrebbero riconosciuto l’errore. Trofimov cita il principe Khaled al Faisal il quale nel 2004 ebbe a dire che, sebbene coloro che avevano occupato la Grande Moschea fossero stati eliminati, “tuttavia abbiamo trascurato l’ideologia che stava dietro a quel crimine e abbiamo lasciato che essa si diffondesse nel paese, ignorandola come se non esistesse”. Ciò nonostante, i chierici di nomina saudita continuano ancora oggi a predicare l’odio e fomentare la violenza.

Soldati sauditi durante i combattimenti nella Grande Moschea della Mecca, novembre 1979

Per quanto riguarda i governanti iraniani, essi hanno due grandi conti da regolare con i sauditi. Uno risale al VII secolo, quando scoppiò una controversia all’interno della comunità musulmana su chi doveva succedere al profeta Maometto. Da allora lo scisma teologico non ha fatto che ampliarsi. I mullah sciiti iraniani pensano che i custodi delle città sante La Mecca e Medina non dovrebbero essere sunniti, men che meno i discendenti di una tribù guerriera che in Europa si danno all’alcol e al gioco d’azzardo continuando a pretendere di avere sangue reale nelle vene.

Un risentimento iraniano meno antico riguarda il fatto che la maggior parte del petrolio d’Arabia si trova nella provincia orientale dove la maggioranza della popolazione è tradizionalmente sciita. Si tratta di arabi che hanno ben poco di “saudita” essendo stati conquistati dai sauditi nel 1913 e da allora per mano saudita patiscono discriminazioni e persecuzioni. Lo scorso gennaio è stato giustiziato Nimr al-Nimr, un religioso sciita della provincia orientale che aveva preso posizioni critiche verso il governo saudita.

La risposta politica del presidente Obama a questa realtà tesa e complicata? Recentemente ha detto a un giornalista che sauditi e iraniani dovrebbero “condividere il quartiere”. Possiamo immaginare i commenti che saranno stati fatti nei palazzi di Riyadh e in quelli di Teheran. Inoltre, varrebbe la pena riflettere sul messaggio che una frase del genere invia alle minoranze del “quartiere”: i cristiani attualmente sotto aggressione genocida, i curdi, i drusi e, naturalmente, gli ebrei israeliani.

I sauditi non sono mai stati amici dell’America nel senso di avere valori comuni o affetto reciproco. Ma sono stati gli alleati dell’America nel senso di avere nemici comuni e alcuni interessi comuni e vitali. Ora i sauditi si trovano di fronte a quella che vedono come una minaccia esistenziale da parte di iraniani teocratici che orgogliosamente proclamano di aborrire l’America. Eppure il presidente americano sta facendo arricchire quei teocrati iraniani e li sta rafforzando facendo una concessione dopo l’altra senza esigere reciprocità. E’ ragionevole supporre che i sauditi si sentano perplessi e forse traditi. Se è così, non sono i soli.

(Da: Israel HaYom, 27.4.16)