Nell’era di Hamastan

Si può sperare che qualche lezione venga tratta da questa vicenda

Da un articolo di Barry Rubin

image_1732La violenta conquista della striscia di Gaza da parte di Hamas inaugura un nuovo periodo nella storia del conflitto arabo-israeliano e del Medio Oriente: sta per nascere un nuovo “stato” islamista, il che non preannuncia nulla di buono per la stabilità della regione e per l’occidente.
Tuttavia si può sperare che qualche lezione venga tratta da questa esperienza. Il quotidiano israeliano vicino alla sinistra pacifista Ha’aretz esprime la cosa con un certo understatement britannico quando scrive: “Tutti coloro, in Israele, che ancora si pongono la questione dell’interlocutore palestinese potrebbero dover fare qualche ripensamento. Perlomeno a Gaza, sembra proprio che non ci sia più nessuno con Israele possa dialogare”.
Nel 2000 il leader palestinese Yasser Arafat rifiutò l’offerta del presidente Bill Clinton di uno stato palestinese indipendente con capitale a Gerusalemme est e l’offerta iniziale di 23 miliardi di dollari in aiuti (soprattutto per la riabilitazione dei profughi). Dopo di allora è apparso chiaro che non esiste una soluzione diplomatica al conflitto israelo-palestinese. Il rilancio della violenza terroristica da parte di Arafat non fece che rafforzare questo concetto.
Il problema non era tanto Arafat, quanto la strategia complessiva del movimento palestinese dominato da Fatah. Sin dall’inizio del processo di pace con gli Accordi di Oslo del 1993, quella leadership praticamente non fece neanche il tentativo di spostare la società palestinese verso la pace e la moderazione. Fatah aveva a disposizione un’invitante alternativa che avrebbe potuto proporre: otterremo uno stato, vi faremo tornare i profughi, svilupperemo la nostra economia e la nostra cultura e godremo di aiuti internazionali su scala internazionale in cambio della fine del conflitto. Invece ha continuato a glorificare la violenza, a diffondere odio verso Israele e l’America e ad allevare un’intera generazione nella fede in una vittoria “totale” e con l’estinzione di Israele.
Dopo la morte di Arafat, Fatah è rimasta il movimento incompetente e corrotto che era, ma non aveva più nemmeno un leader forte. Incapace di ottenere uno stato, maldisposta verso la pace e ben poco interessata a gestire una decente amministrazione, Fatah si è scavata da sé la propria fossa. Perché mai ci si dovrebbe stupire che Hamas l’abbia rimpiazzata? Tuttalpiù il ritiro di Israele dalla striscia di Gaza e le pressioni americane per vere elezioni hanno solo accelerato il processo.
C’è poi un altro importante insegnamento da trarre da questa storia recente. La maggior parte degli stati e dei movimenti arabi hanno bisogno che il conflitto continui. Dopo tutto, come farebbero dei regimi dittatoriali e pessimamente amministrati senza Israele come capro espiatorio? Se, ad esempio, la Siria facesse la pace con Israele in cambio delle Alture del Golan, ciò segnerebbe l’inizio della fine di quel regime. Nel giro di pochi mesi i siriani incomincerebbero a chiedere riforme per i diritti umani e la libertà d’impresa. Il regime non potrebbe più sbandierare i demoni israeliano e americano come scusa per continuare la dittatura, privare la sua popolazione di diritti e sviluppo materiale e mobilitarne il sostegno. Lo stesso vale per i movimenti islamisti estremisti che cercano di guadagnare potere.
Per cui, diciamocelo chiaramente: allo stato attuale non esiste una soluzione a breve termine del conflitto arabo-israeliano, non esiste una parte palestinese con cui si possa negoziare seriamente un accordo di compromesso. Molti stati arabi cercano di sfruttare il conflitto. Altri vorrebbero fare la pace, ma sono terrorizzati, e va a discredito dell’occidente il fatto che questi stati non credono che l’occidente possa o voglia sostenerli e proteggerli.
Si possono trarre alcune conclusioni politiche dal trionfo di Hamas a Gaza.
Innanzitutto, occidente e Stati Uniti in particolare dovrebbero superare l’ossessione di “risolvere” questo conflitto, che è destinato invece a durare ancora a lungo. I “piani di pace” non porteranno da nessuna parte. Hamas non si farà convincere a diventare moderata: perché mai dovrebbe farlo quando si aspetta successo in casa e condiscendenza dall’Europa? Hamas è il nemico, esattamente come lo è al Qaeda, perché fa parte del tentativo islamista estremista di assumere il controllo della regione, abbattere tutto ciò che è solo vagamente moderato ed espellere ogni influenza occidentale.
In secondo luogo, dal momento che la politica palestinese è chiaramente tornata a una condizione pre-1993, altrettanto dovrebbe fare la politica dell’occidente e degli Stati Uniti. Il che significa nessun aiuto occidentale e nessun appoggio diplomatico finché i leader palestinesi non cambiano politica. Il movimento palestinese dovrebbe poter guadagnare aiuto finanziario e appoggio politico solo nel lontano giorno in cui accetterà il diritto di Israele ad esistere, cesserà il sostegno e l’uso del terrorismo e si impegnerà seriamente per negoziare una vera soluzione “due stati”.
Terzo, è tempo che si esprima appoggio a Israele in modo chiaro e senza reticenze. Israele ha fatto tutto il possibile per la pace, assumendosi anche grandi rischi. Ma purtroppo è morta e sepolta l’idea che un atteggiamento imparziale, tutto teso alla costruzione della fiducia, possa mediare una soluzione di pace.
Infine, questo drammatico ma prevedibile sviluppo comporta implicazioni strategiche più ampie per Stati Uniti e occidente. Le forze estremiste hanno guadagnato una nuova importante posizione, il che incoraggerà il reclutamento di nuovi quadri. Iran, Siria e Hezbollah diventeranno più sicuri e aggressivi. Ci troviamo nel mezzo delle terza grande lotta a memoria d’uomo contro il totalitarismo. Come nelle battaglie contro fascismo e comunismo, anche questo conflitto potrà essere vinto solo facendo appello alle determinazione e a alle risorse dell’occidente. Ciò che è accaduto nella striscia di Gaza è una battaglia persa in questo contesto. Non c’è spazio per molte altre sconfitte di questo genere.

(Da: The Wall Street Journal, 15.06.07)

Nella foto in alto: l’autore dell’articolo Barry Rubin, direttore del Global Research in International Affairs Center.