No, Israele non ha scatenato nessuna guerra di religione contro i cristiani in Terra Santa

Come mai una disputa fiscale ha portato leader cristiani e palestinesi a gridare alla "persecuzione" (e chiudere il Santo Sepolcro) quando persino papa Francesco dice che le proprietà commerciali della chiesa devono pagare le tasse?

Di Ariel David

Ariel David, autore di questo articolo

Come è tipico in Medio Oriente, una mediocre disputa finanziaria relativa alla riscossione di tasse sulle proprietà delle confessioni cristiane a Gerusalemme è rapidamente degenerata in una crisi politica e religiosa su vasta scala. I leader cristiani hanno adottato la misura pressoché senza precedenti di chiudere a fedeli e pellegrini la Basilica del Santo Sepolcro, i capi arabi e palestinesi hanno descritto la questione come l’ennesimo esempio delle politiche discriminatorie d’Israele e della sua usurpazione dei luoghi santi non ebraici. E questo stesso giornale, Ha’aretz, ha paventato che Israele stesse “bruciando i ponti col mondo cristiano”.

Il governo israeliano è corso ai ripari agendo in modo responsabile: ha accantonato la controversa proposta di legge che avrebbe permesso allo Stato di confiscare terre vendute dalle Chiese a privati, e ha convinto la Municipalità di Gerusalemme a congelare il tentativo di riscuotere forzatamente le tasse di proprietà su beni ecclesiastici usati per attività commerciali. (…)

Ora che le autorità israeliane hanno fatto la loro parte, bisogna pur notare che i leader cristiani che hanno lanciato la protesta non sono proprio irreprensibili. Non avrebbero mai dovuto legare la salvaguardia dei loro interessi finanziari al conflitto israelo-palestinese, né dipingere il confronto come una battaglia dentro una guerra condotta dal governo israeliano contro una minoranza indifesa: una tattica che avrebbe potuto facilmente fare fiasco, portare a una situazione di stallo o addirittura scatenare violenze, in una situazione già di per sé molto tesa.

25 febbraio: pellegrini cristiani in preghiera davanti alla porta chiusa della Basilica del Santo Sepolcro, a Gerusalemme

Una tattica oltretutto portata avanti in malafede, se si considera che un dibattito molto simile sulla tassazione delle proprietà delle istituzioni religiose è già in corso da tempo in parecchi altri paesi, come l’Italia e la Grecia, dove i cristiani sono la stragrande maggioranza e le Chiese cattolica o ortodossa godono di un’influenza politica molto significativa. Difficile accusare l’Italia di perseguitare i cristiani. Eppure proprio in Italia diversi politici cercano da decenni di far abolire le esenzioni fiscali concesse alla Chiesa cattolica e costringerla a pagare le imposte municipali sulle sue proprietà ad uso commerciale, in particolare gli edifici usati come alberghi e resort turistici. Costoro sostengono che le esenzioni privano le casse dello Stato di milioni di entrate fiscali che sarebbero assolutamente necessari, e favoriscono la concorrenza sleale giacché consentono alle attività esentasse della Chiesa di offrire prezzi più bassi. (…)

Discorsi analoghi vengono portati avanti da politici e attivisti in Grecia e Spagna in relazione alle proprietà rispettivamente delle Chiese greco-ortodossa e cattolica, in un clima di risentimento popolare per i privilegi concessi alle istituzioni religiose che tende a crescere parallelamente ai guai finanziari di questi paesi e all’aumento del carico fiscale sui normali cittadini.

Esattamente come nel caso di Gerusalemme, chi propugna l’abolizione delle esenzioni sottolinea che i veri luoghi di culto continuerebbero ad essere esentasse e che lo Stato riscuoterebbe imposte solamente su beni usati per scopi commerciali come alberghi, ostelli, cliniche e scuole private. I leader religiosi generalmente ribattono che quelle attività, è vero che producono profitti, ma il denaro guadagnato viene poi usato per opere di beneficenza e altre buone cause promosse dalle istituzioni religiose.

Il dibattito è aperto e vede contrapporsi esponenti più laici contro esponenti più legati alle Chiese: nei parlamenti, nei mass-media e persino nei tribunali, essendo arrivato in alcuni casi persino davanti alla Corte di Giustizia Europea in base all’accusa che le agevolazioni fiscali costituiscano una forma illegale di aiuti di Stato.

Vista dall’Hotel Pontificio di Notre Dame, a Gerusalemme

Ciò nondimeno, non accade mai che questa controversia di natura fiscale porti a sprangare un santuario di importanza mondiale come la Basilica del Santo Sepolcro, né i capi spirituali delle Chiese a descriverla come una guerra santa lanciata contro i cristiani.

In realtà, già nel 2015 lo stesso papa Francesco sembrò incline a sostenere le tesi di coloro che pensano che le proprietà commerciali della chiesa debbano essere in regola con il fisco. “Un collegio religioso, essendo religioso, è esentasse – disse papa Francesco in un’intervista a una radio portoghese, ampiamente rilanciata dai mass-media italiani – ma se funziona come un albergo, allora dovrebbe pagare il dovuto. Alcune congregazioni dicono: ora che il convento è vuoto, trasformiamolo in un hotel in modo che possiamo ricevere ospiti, sostenerci e guadagnare denaro. Bene, se è questo che vuoi, allora paga il dovuto, altrimenti il business non è pulito”. Come prevedibile, non è che le organizzazioni religiose in Italia e altrove si siano precipitate a dare seguito alle parole del pontefice, e la municipalità di Roma si sta adoperando da anni in tribunale nel tentativo di riscuotere circa 20 milioni di euro di imposte arretrate da varie istituzioni cattoliche.

Una questione tecnica su cui la giurisprudenza non è ancora chiara è cosa deve accadere quando le proprietà vengono utilizzate per scopi misti, come un ostello per pellegrini in cui si svolgano anche servizi religiosi. Questa complessità non fa che confermare che lo sforzo di definire il profilo fiscale delle proprietà delle Chiese non ha nulla a che vedere con un attacco alla libertà di religione, trattandosi piuttosto di una questione finanziaria e giudiziaria assai intricata che nasce per forza di cose dalla crescente separazione fra Chiesa e Stato nelle moderne democrazie laiche. Ai tempi in cui questa demarcazione era poco chiara (o assente del tutto), era facile per i giuristi respingere ogni suggerimento di tassare le proprietà religiose ricorrendo al vecchio detto latino Ecclesia decimas non solvit Ecclesiae (“la Chiesa non paga le decime alla Chiesa”): perché ciò significava semplicemente spostare denaro da una tasca all’altra. Ora che quelle tasche non hanno più lo stesso proprietario, i dirigenti della Chiesa fanno fatica a rinunciare a privilegi millenari.

Ma alla fine può ben darsi che dovranno mettersi in regola con il famoso suggerimento fatto duemila anni fa da un certo Gesù di Nazareth il quale, alla domanda se gli ebrei dovessero pagare le tasse allo Stato romano, tirò fuori una moneta con l’effige dell’imperatore e disse ai fedeli: “Date a Cesare quel che è di Cesare”.

(Da: Ha’aretz, 28.2.18)