Non basta più aspettare una telefonata

Poco dopo la fine della guerra dei sei giorni Moshe Dayan fu intervistato dalla BBC.

Da un articolo di Uzi Benziman

image_1145Poco dopo la fine dei combattimenti della guerra dei sei giorni (1967), l’allora ministro della difesa israeliano Moshe Dayan fu intervistato dalla BBC. La riposta che Dayan diede a una domanda su cosa Israele si aspettasse, a quel punto, dai suoi vicini risuona ancora oggi in Medio Oriente: “Aspettiamo una telefonata dagli arabi”. Oggi è tempo di cambiare quel messaggio e iniziare a compiere passi concreti verso una separazione dai territori che finirono sotto controllo israeliano con quella guerra.
Le parole di Dayan riflettevano non solo l’impertinenza di un leader inebriato dalla vittoria, ma anche il respiro di sollievo di una nazione assediata che sentiva d’essere scampata all’annientamento. Col senno di poi, alcuni storici sostengono che l’atmosfera di paura che aveva avvolto Israele alla vigilia di quella guerra era esagerata. Ma chi c’era ricorda bene il terrore di quei giorni e la palpabile minaccia che incombeva sulla testa di tutti gli israeliani. Ecco perché la risposta di Dayan incontrò il favore generale. Israele sentiva d’essersi appena salvato da un secondo olocausto, e con un misto di orgoglio e di rabbia annunciava al mondo che poteva dirsi soddisfatto dello stato di cose scaturito dallo scontro militare cui era stato costretto dai suoi nemici, e che non intendeva prendere iniziative per modificarlo.
Passarono meno di dieci anni prima che Dayan fosse costretto a rimangiarsi quelle parole. Quando bussò alla porta l’opportunità di fare la pace con l’Egitto, Dayan si attenne alla regola per cui Israele non respinge mai una mano tesa, e lasciò cadere la sua precedente dichiarazione secondo cui “è meglio avere Sharm el-Sheikh che avere la pace”. Lo stesso approccio guidò Yitzhak Rabin negli accordi di Oslo e nell’accordo di pace con la Giordania.
Tuttavia, i vari governi israeliani si dimostrarono incapaci di liberare il paese dalla presa sui territori di Cisgiordania e Gaza, finché non arrivò Ariel Sharon che fece sgomberare la striscia di Gaza.
Le elezioni di martedì sono state, viste in retrospettiva, una sorta di referendum sul piano di disimpegno e di “consolidamento”. Si può dire che la vox populi si è fatta sentire: gli israeliani preferiscono la pace ai territori. E se la pace non è un’opzione realistica, allora preferiscono un periodo di tregua fondato sulla deterrenza, che permetta allo stato di indirizzare risorse nella promozione del welfare e della qualità della vita dei cittadini. Il campo “arancione” anti-disimpegno ha perduto la sua battaglia.
La conclusione è netta. Dopo più di una generazione, le cose appaiono chiare. Il pubblico israeliano capisce che Israele deve abbandonare il sogno di mantenere il controllo su Giudea e Samara (Cisgiordania). La leadership politica si sta gradualmente adattando a questa realtà, ma esita ancora a tradurre le convinzioni in azioni, e certamente evita di fissare scadenze.
Non è più tempo di puntare i piedi: il principale compito del nuovo governo eletto sarà quello di fare passi che conducano a una separazione dai territori. Innanzitutto deve smettere di aspettare una telefonata da Hamas. Anziché stare fermo e aspettare di vedere cosa accade nell’Autorità Palestinese nell’attesa che vengano accolte le condizioni necessarie, il nuovo governo israeliano deve prendere l’iniziativa e modificare concretamente i rapporti fra Israele e palestinesi.
La guerra dei sei giorni fu la giusta e opportuna risposta a un’autentica minaccia esistenziale. La brama di insediamenti fu una mutazione che ha portato scelleratezze. I tempi sono cambiati. Persino i telefoni non sono più quelli di trentanove anni fa.

(Da: Ha’aretz, 29.03.06)