Non chiamatela apartheid

Ritorna periodicamente l'assurdo paragone tra Israele e Sud Africa

Da un articolo di Tova Herzl

Ogni tanto, quando il paragone fra Israele e il regime di apartheid in Sud Africa compare di nuovo nei titoli, mi viene in mente la conferenza sul razzismo a Durban nel 2001. Un incidente verificatosi a quella conferenza, che divenne una pietra miliare nella lotta per delegittimare Israele, è rimasto scolpito nella mia memoria.
Nelle ultime settimane, durante le quali Israele ha ospitato una delegazione di gente di larghe vedute, in prima linea nella lotta contro l’apartheid, mi sono tornati in mente i suoni e le immagini di quell’incidente: durante una dimostrazione nelle strade di Durban, i dimostranti gridavano “Amandela intifada!”: Amandela è la parola zulu per ‘potere’ ed era spesso usata nelle dimostrazioni contro il regime minoritario bianco.
Da quella conferenza i nemici di Israele hanno tratto un paragone tra queste due lotte, per dimostrare che Israele, come l’apartheid, non ha il diritto di esistere. Le parole e gli slogan hanno una loro forza. E’ risaputo che il modo di formulare le domande nei sondaggi di opinione influenza la risposta e può indirizzare il rispondente in una certa direzione. Quando si usa la parola “apartheid,” che, in pratica, significa la superiorità di una razza e l’inferiorità di tutte le altre, è chiaro che non ci può essere soluzione. L’unico posto per i regimi come quello dell’apartheid in Sud Africa è la pattumiera della storia. Se i critici di Israele paragonano il regime israeliano ad altri fenomeni, come il colonialismo, l’unica conclusione ragionevole è che il paragone è sbagliato nel migliore dei casi, o malevolo nel peggiore: ma dalla storia dedurranno anche che c’è una via d’uscita. Quando si ha a che fare con l’ apartheid, invece, è inutile anche solo provare. Il dado è stato tratto.
Ci sono parecchi paesi il cui comportamento non è approvato da qualcuno. In alcuni, ebrei e cristiani non hanno diritto alla cittadinanza, e ci sono alcuni regimi che impediscono alle donne di votare. E’ giusto? No. E’ apartheid? No. Ci sono situazioni in cui c’è un baratro insormontabile tra i ricchi e i poveri, tra gli istruiti e gli ignoranti. Al limite, ci sono paesi in cui è perfettamente accettabile che lo stato favorisca quelli che appoggiano il regime a spese dei suoi oppositori. E’ difficile da digerire? Si. E’ apartheid? Ovviamente no. Perfino paesi dove ci sono sanguinose lotte etniche non sono paragonati al più criticato di tutti i regimi. Anche se fosse possibile trovare qualche somiglianza tra un certo regime e il regime dell’ apartheid – ed è sempre possibile trovare almeno un elemento in comune – il nocciolo del problema è un altro. Solo quando si parla di Israele e delle sue azioni questo paragone viene usato in modo indiscriminato.
Particolarmente irritante è il modo in cui certe persone vedono i blocchi stradali e altre misure del governo come se fossero la prova definitiva della somiglianza tra Israele e l’apartheid del Sud Africa. Israele ha forse eretto questi blocchi stradali senza un buon motivo? Questo conflitto israelo-palestinese è forse privo di un contesto e di una storia? Sono i palestinesi gli unici ad aver sofferto? Sono gli israeliani i soli che devono essere biasimati? Solo uno stupido o una persona faziosa non riconosce gli errori e le sofferenze di entrambe le parti.
Quelli che insistono nel vedere le due situazioni – Israele e Sud Afeica – come identiche dovrebbero ricordare che evitare di colpire civili bianchi innocenti era uno dei fondamenti della lotta per la libertà tra i sudafricani neri. Inoltre, a parte qualche caso isolato, non c’era una ideologia che prevedesse di buttare a mare tutti i bianchi o, o di distruggerli, o di deportarli e mandati via.
Quando ospitiamo delegazioni dal Sud Africa, o gente che si interessa a quanto avviene qui in Israele, non si può fare a meno di dispiacersi per le sofferenze dei malati in attesa ai checkpoint ed alle grida di “apartheid.” In queste circostanze, è inutile ricordare alla gente le centinaia di migliaia di bambini di colore morti di stenti perché il governo aveva deciso che non meritavano acqua potabile, elettricità, strade, cibo o medicine. Si può solo confrontare gli strumenti usati da quelli che si oppongono ad entrambi i regimi; si possono confrontare i loro obiettivi e poi decidere se ci siano giustificazioni per il loro comportamento.
Non tutti quelli che usano la parola apartheid per descrivere Israele credono che l’impresa sionista dovrebbe fare la stessa fine del regime della minoranza bianca in Sud Africa. Alcuni vogliono quello che è meglio per Israele, si dispiacciono per quello che Israele fa e cercano di metterlo in guardia contro le conseguenze. Ma quando decidono di usare un’espressione così pesante, forniscono ulteriori munizioni ai nemici giurati di Israele. Non con fucili e proiettili, ma con parole da usare sul campo di battaglia cruciale della legittimità internazionale.
Io sono cresciuta in Sud Africa e ci sono ritornata come ambasciatore di Israele. Ai miei occhi, usare la parola apartheid per descrivere Israele svilisce anche il ricordo di quelli che sono morti per mano di quel regime malvagio. Dobbiamo alzare la voce contro l’uso di questo orribile paragone.

(Da:Ha’aretz, 17.07.08)