Non è facile analizzare il Medio Oriente
Di certo non aiutano i commentatori prevenuti.
Se ne discute in Israele: recenti commenti sulla stampa israeliana
Scrive EITAN HABER, su YEDIOT AHARONOT, a proposito del cosiddetto “inverno islamico”: «Tutte le percezioni dell’islam hanno un denominatore comune: l’annullamento dell’esistenza di Israele. Nell’opinione di sunniti, sciiti, religiosi e laici, noi siamo visti sempre e solo come invasori che vivono sulla loro terra santa: e per tutti noi c’è uno e un solo verdetto.»
(Da: Yediot Aharonot, 18.12.11)
Scrive ODED GRANOT, su MA’ARIV: «Il primo anniversario della “primavera araba” si è quasi identificato con il giorno in cui gli americani hanno ammainato la bandiera in Iraq per tornare a casa. Se l’amministrazione americana avesse fatto tesoro della lezione irachena, forse non si sarebbe affrettata, un anno fa, a pugnalare alla schiena Mubarak prima di essere certa che in Egitto fossero state gettate le fondamenta di una vera democrazia”.»
(Da: Ma’ariv, 18.12.11)
Si legge in un editoriale di HA’ARETZ: «Quasi nove anni dopo che George W. Bush mandò le sue forze in Iraq a caccia di armi di distruzione di massa, è tempo di bilanci. L’Iraq non è diventato più sicuro, la sua democrazia è in forse, è uno dei paesi più corrotti sulla terra, ha la quarta più grande riserva mondiale di petrolio eppure non riesce a garantire ai suoi abitati una fornitura elettrica senza interruzioni, i servizi pubblici e la sicurezza personale sono al livello dei paesi peggio messi. L’Iraq doveva diventare economicamente indipendente, forte e democratico e fare muro contro l’Iran insieme al resto del mondo arabo. È accaduto il contrario: l’Iraq è oggi il più importante alleato dell’Iran nella regione dal punto di vista politico ed economico. Al li là della questione del futuro dell’Iraq, la guerra ha impartito agli Stati Uniti una dura lezione: Iraq e Afghanistan sono diventati il trauma militare dopo il Vietnam, un trauma che dovrebbero tenere bene a mente coloro che vorrebbero una guerra contro l’Iran.»
(Da: Ha’aretz, 18.12.11)
Si legge in un editoriale del JERUSALEM POST: «Quando le star dell’amministrazione Obama, a cominciare dal segretario alla difesa Leon Panetta, mettono pubblicamente in guardia Israele contro attacchi preventivi sugli impianti nucleari iraniani, si produce un’infelice percezione tutt’affatto diversa. Intenzionalmente o meno, l’impressione è che Washington leghi le mani a Israele e che Mahmoud Ahmadinejad abbia meno da temere. Quali che siano i dubbi che nutrono a Washington, dovrebbero discuterne con Israele in privata sede e non mandandoli in onda dappertutto in modo da far gongolare i capi del regime di Tehran. Questo non è certo il momento di rafforzare la fiducia in se stessi degli ayatollah.»
(Da: Jerusalem Post, 18.12.11)
Scrive YERACH TOCKER, su YISRAEL HAYOM: «In tutta la sua storia il popolo ebraico ha preservato la tradizione di accendere le candele durante la festa di Chanukkah, una tradizione mantenuta oggi anche dalla maggior parte degli ebrei laici. Quei lumi ricordano i giorni in cui esisteva il Tempio e i greci, che pretendevano che gli ebrei abbandonassero la Torah, combatterono il popolo ebraico con tutta la loro potenza, ma ciò nonostante i pochi e deboli ebrei ebbero la meglio. Quel che era vero allora, è vero anche oggi: la lotta dei deboli e dei pochi contro i molti e forti non è mai finita. Certamente non lo è in questi giorni, quando Israele si trova solo contro nemici che sono numerosi e potenti. Le candele ci ricordano di non abbandonare mai la speranza.»
(Da: Yisrael Hayom, 18.12.11)
Si legge in un altro editoriale del JERUSALEM POST: «E’ da diversi anni che l’editorialista del New York Times Thomas Friedman, vero guru degli ebrei liberal americani, dimostra coi suoi articoli di non capire né Israele né il Medio Oriente. La sua incomprensione di Israele è evidente nell’assunto che sta sempre alla base dei suoi editoriali: che se soltanto Israele abbandonasse gli insediamenti, la pace fiorirebbe in tutto il suo splendore. Ebbene, nel 2005 Israele ha smantellato tutti i ventun insediamenti che c’erano nella striscia di Gaza e invece della pace ha ricevuto in cambio una raffica senza fine di missili e razzi. Gli insediamenti sono una conseguenza del conflitto, non la sua causa. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nel caso lo si fosse scordato, venne creata nel 1964: tre anni prima della guerra dei sei giorni e di qualunque idea di insediamenti in Cisgiordania. Per quanto riguarda, poi, quel che Friedman capisce del Medio Oriente, basta leggere le sue strepitose “Cartoline dal Cairo” pubblicate lo scorso febbraio, all’inizio della “primavera araba”. Leggendole allora si poteva star certi d’essere testimoni di un nuovo 1989, e che Hosni Mubarak sarebbe stato deposto e sostituito con una versione egiziana di Vaclav Havel. In uno dei suoi pezzi, Friedman se la prendeva con Israele perché non sosteneva abbastanza i manifestanti di piazza Tahrir. “I figli d’Egitto – scriveva – hanno il loro movimento di liberazione e i figli d’Israele hanno deciso di stare dalla parte del Faraone, fino alla fine”. Sbagliato. Israele non appoggiava il Faraone. Era invece profondamente preoccupato che, dopo la rivoluzione egiziana, il Sinai potesse diventare una base per terroristi, che il gasdotto Egitto-Israele potesse diventare bersaglio di continui attentati terroristici, che l’ambasciata d’Israele al Cairo potesse essere assaltata e saccheggiata, che i Fratelli Musulmani, e i salafiti ancora più estremisti, potessero vincere le elezioni parlamentari.
(Da: Jerusalem Post, 15.12.11)