Non serve a niente gridare “Basta con l’occupazione”

Non esistono ricette facili e gli slogan superficiali non aiutano. Vediamo perché Israele non può semplicemente “andarsene” dalla Cisgiordania

Di Peter Lerner

Peter Lerner, autore di questo articolo

“Basta con l’occupazione! – mi ha gridato un uomo di mezza età durante una mia recente conferenza – E’ così semplice, finitela con l’occupazione!”. Siamo nell’era dell’impazienza, nell’era delle risposte istantanee su Twitter, delle notizie a portata di mano, di “pace subito” e così via. Magari fosse così semplice.

Mentre aspettiamo tutti l’”accordo del secolo” del presidente Donald Trump, dobbiamo essere realisti e tenere a mente alcune cose. Non sto parlando dell’eterno dibattito su diritti storici e religiosi: diritti che sono ampiamente menzionati da politici e osservatori, e fonte di ispirazione per tante polemiche, ma che non costituiscono i fattori di real-politik in gioco per arrivare a un accordo definitivo tra israeliani e palestinesi. Sono questioni importanti, ma non servono per capire le sfide e le difficoltà con cui dobbiamo fare i conti, di fronte alla pressante domanda da parte di organizzazioni nazionali e internazionali di “porre fine all’occupazione”. In Israele, anche quello che ama definirsi “il campo della pace” non dispone di una ricetta pronta per arrivare alla pace: e questo è dovuto al fatto che non riesce a cogliere le vere sfide con cui Israele deve fare i conti.

Vediamo in breve perché Israele non può semplicemente “andarsene” dalla Cisgiordania. Gli impedimenti allo stato attuale sono tre: leadership, geografia e sfiducia.

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Innanzitutto vediamo la questione della leadership, o meglio della mancanza di leadership. Il capo palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha 83 anni, ha problemi di salute e nel 2018 è già stato ricoverato diverse volte. Dal 2007 ha autorizzato le sue forze di sicurezza a coordinarsi strettamente con quelle israeliane. Le forze di sicurezza palestinesi cooperano con Gerusalemme non per amore d’Israele, ma per la paura che Hamas si impadronisca della Cisgiordania. Tuttavia, il fatto che Abu Mazen minaccia continuamente di revocare questo coordinamento sulla sicurezza mette Israele in una sorta di limbo, con la conseguente necessità di mantenere un controllo diretto in quest’area così importante per la sua sicurezza nazionale.

Abu Mazen non ha un chiaro successore, e se dobbiamo trarre qualche insegnamento dalla realtà del Medio Oriente dobbiamo mettere in conto una durissima lotta di potere, nel suo campo, una volta che lui sarà uscito di scena. Anche Hamas sta a guardare come una pantera pronta al balzo, in vista della la sfida per la leadership sulla Cisgiordania che si scatenerà nell’Autorità Palestinese.

Nella parte israeliana, Benjamin Netanyahu ha smorzato il sostegno alla soluzione a due stati che aveva espresso nel famoso discorso del 2009 all’Università Bar Ilan. Ora sottolinea il fatto che diversi soggetti intendono cose diverse quando discutono un accordo negoziato in questi termini. E non ha più ripetuto il congelamento per dieci mesi di tutte le attività edilizie ebraiche nei Territori che decretò tra il 2009 e il 2010 con l’intento di rabbonire l’allora presidente americano Barak Obama e di convincere Abu Mazen a tornare al tavolo dei negoziati. Non ottenne né l’una né l’altra cosa, ma pagò un pesante prezzo politico. Oggi nessuno dei contendenti israeliani per la leadership del paese è in grado di proporre un piano alternativo che sia realistico e praticabile, il che lascia poche possibilità di cambiamento nel futuro immediato.

In secondo luogo ci sono la topografia e la geografia, che restano il fattore statico nel dibattito strategico sulla pace con i palestinesi. Giudea e Samaria, cioè la Cisgiordania, costituiscono un crinale montuoso che separa la valle del Giordano dalla piana costiera, dando a Israele quella minima profondità strategica che gli è necessaria per salvaguardare la propria popolazione civile.

Nel cerchio rosso, un aereo civile in decollo dall’aeroporto internazionale Ben-Gurion, visto dalla Cisgiordania. Sullo sfondo, il mar Mediterraneo (clicca per ingrandire)

All’ombra delle alture della Cisgiordania, da Haifa a Ashkelon passando per Tel Aviv si trova il 70% della popolazione israeliana e l’80% delle attività economiche israeliane, tra cui centrali energetiche, impianti connessi alle piattaforme off-shore, l’aeroporto internazionale Ben-Gurion. Chiunque controlli quelle alture può imporre il bello e il cattivo tempo a tutto ciò che si trova ai loro piedi. Con le note turbolenze che imperversano in tutta la regione, con i capi iraniani che definiscono Israele un tumore canceroso e guardando alla Giordania come al loro prossimo campo di battaglia per la sovversione del Medio Oriente, quale leadership israeliana potrebbe mai rinunciare a cuor leggero al controllo di sicurezza su una risorsa strategica come la Cisgiordania?

Infine, la sfiducia. I fallimenti e i rifiuti del processo di Oslo, le attività negli insediamenti, le ripetute guerre con Hamas a Gaza e la generale animosità politica lasciano israeliani e palestinesi in uno stato di profonda sfiducia, che non fa che aumentare al perdurare dell’impasse attuale. Affinché lo stato ebraico abbia un vero futuro come tale senza scivolare verso un futuro da “stato unico”, questa questione deve essere affrontata, e prima lo si fa meglio è. La fiducia deve essere costruita con l’aiuto di partner internazionali: governi e ong che operino sul serio in questo senso e non per seminare discordia; attori statali come l’Egitto e la Giordania, e forse qui ha senso che entri in gioco anche l’Arabia Saudita. Bisogna costruite alleanze. Bisogna riaccendere la fiducia in un processo diplomatico, affinché Israele possa tendere la mano di pace e di buon vicinato, in nome del bene comune della regione, che già tendeva nella sua Dichiarazione d’Indipendenza. Bisogna concepire misure di sicurezza e tecnologiche per garantire quella profondità strategica che una soluzione a due stati richiederebbe per la sicurezza di Israele. Bisogna favorire la formazione di una prossima generazione di leader pragmatici da entrambe le parti.

Si deve guardare ai problemi con mente aperta, ma realistica e pratica. Si deve esplorare un percorso che riconosca il patrimonio ebraico in questo Paese, ma prenda atto delle rinunce che bisogna fare per non finire ad essere minoranza in un unico stato di “Terra Santa”. E sappiamo qual è la sorte delle minoranze in Medio Oriente.

Sono processi lunghi e devono essere accettati come tali. C’è molto lavoro da fare, sia per gli israeliani che per i palestinesi. Non ci sono soluzioni immediate e gli slogan superficiali e supponenti non sono di alcun aiuto. Quindi, la si smetta di gridare: “Basta con l’occupazione”.

(Da: Haratez, 28.11.18)