Non si venga a parlare di “spirale della violenza”

Siamo di fronte a una quantità immensa di persone cui è stato insegnato che tutelare la vita vale meno che uccidere e morire in nome di una perversa ideologia religiosa

Alcuni commenti sulla stampa israeliana

Scrive David Horovitz, su Times of Israel: «La notizia del ritrovamento dei corpi senza vita di Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Frenkel ha certamente sconvolto, ma purtroppo non ha sorpreso gli israeliani. L’uccisione a sangue freddo di israeliani in atti di terrorismo ha sempre fatto parte, atrocemente, della vita in questo paese. I ricordi della seconda intifada di dieci anni fa, quando decine di attentatori suicidi vennero scagliati contro Israele in uno strategico assalto terrorista pensato per costringerci ad abbandonare il nostro paese, sono ancora ben vivi nella maggior parte degli israeliani, anche se in gran parte dimenticati dal resto della comunità internazionale. Ogni pochi giorni saltavano in aria un autobus, un bar o un centro commerciale; altri cinque, dieci, venti innocenti venivano sepolti fra scene di angoscia straziante; e la nazione stringeva i denti e resisteva, in modo decisamente sorprendentemente a ripensarci a posteriori. Gli israeliani non sono perfetti, i nostri leader non sono perfetti, e non sempre le loro politiche sono sagge. Ma a livello più fondamentale, i nostri cuori sono decisamente nel posto giusto. Fondamentalmente vogliamo vivere. E vogliamo che vivano quelli intorno a noi. Quelli, cioè, che non vengono ad ammazzarci. Tutt’attorno, però, in Libano e in Siria e nei paesi a est, e tra i palestinesi in Cisgiordania e Gaza, ci troviamo di fronte a una quantità immensa di persone cui è stato insegnato a sopprimere i propri istinti più umani, cui è stato insegnato che tutelare la vita su questa terra vale meno che uccidere e morire in nome di una perversa ideologia religiosa. Appena otto mesi fa, ad Afula, nel nord di Israele, un soldato israeliano, Eden Atias, di non più di 18 anni, è stato accoltellato a morte nella più fredda delle uccisioni a sangue freddo da un palestinese di 16 anni che era seduto accanto a lui sull’autobus. Atias dormiva quando il suo assassino gli ha tagliato la gola. Che razza di atmosfera tossica può generare un genere di disumanità così spietata in un sedicenne? Lo stesso genere che pervade una famiglia come quella di Amer Abu Aysha, uno dei terroristi accusati dell’assassinio di Yifrach, Shaar e Frenkel: due settimane fa sua madre ha detto al nostro reporter Avi Issacharoff che, se suo figlio era davvero il responsabile, lei ne era orgogliosa e si augurava che potesse sfuggire all’arresto per continuare sulla sua strada. La seconda intifada mise in evidenza la notevole – io credo, unica – capacità di resistenza degli israeliani di fronte al terrorismo. La costruzione della barriera di sicurezza, le accresciute capacità di intelligence, le incessanti attività delle forze di sicurezza nello sventare e frustrare innumerevoli rapimenti e altri attentati terroristici: tutto questo sottolinea la capacità d’Israele di rispondere in modo efficace alle minacce. Dobbiamo preservare sia la resilienza che il pragmatismo delle nostre risposte: intraprendere azioni che scoraggino ulteriori attacchi, agire in modo da emarginare gli estremisti spietati, ed evitare di alienarsi coloro che non ci vogliono fare del male». (Da: Times of Israel, 1.7.14)

Scrive Dror Eydar, su Israel HaYom: «Cosa ha diffuso, negli ultimi cento anni, la cultura della morte che ci circonda? Guardiamoci intorno: non ci sono ebrei in Iraq, non ci sono “territori” in Siria, eppure gli angeli della morte si massacrano allegramente a vicenda. Niente scienza, niente industria, nessuna invenzione a beneficio dell’umanità. Solo morte, avvolta in quello spesso strato di dannata correttezza politica che ha distorto il nostro pensiero. Decine di organizzazioni si battono a difesa dei diritti degli emissari della cultura di morte, mentre restiamo storditi dall’ulteriore assurdità che supera i limiti della tolleranza. Il sequestro dei tre ragazzi Gilad Shaer, Naftali Frenkel e Eyal Yifrach è iniziato quando è stata sequestrata la sana coscienza etica dell’umanità. Se non ci rendiamo conto che i carnefici che riempiono di condannati i carri bestiame e li seppelliscono a decine o centinaia nei fossati e li uccidono ululando come demoni, se non capiamo che questa gentaglia sta operando ai nostri confini e che i suoi successi incoraggiano la cultura di morte qui da noi, continueremo a pagare prezzi pesanti anche in futuro. Ah certo, dicono gli accusatori, ma i tre israeliani erano coloni, quindi è comprensibile, si può spiegare, e comunque se la sono cercata, e via con un sacco di altre stupidaggini. Ma è proprio questo il punto: per loro, siamo tutti coloni. Non solo tra le colline di Giudea e Samaria, ma anche a Tel Aviv. Agli occhi dei nostri vicini e in alcune altre parti del mondo, noi siamo quelli che hanno rubato la terra. Questa calunnia del sangue di stampo medievale viene rilanciata e diffusa ogni giorno da antisemiti e anti-israeliani, e da diversi altri utili idioti. Nulla di nuovo sotto il sole. Questi omicidi non sono che gli ultimi di una lunghissima serie di ebrei assassinati, il frutto maledetto della cultura della morte dei nostri vicini. La lotta per Israele è la nostra lotta per la vita, di fronte a una cultura che ha santificato la morte». (Da: Israel HaYom, 1.7.14)

lumini 2Scrive Gerald M. Steinberg, su Times of Israel: «I tre adolescenti israeliani Naftali Frenkel, Gilad Shaar e Eyal Yifrach sono stati rapiti e assassinati a sangue freddo, mentre tornavano a casa da scuola, in base ad un unico criterio: erano ebrei israeliani. I loro assassini arabi palestinesi non sapevano nulla delle tre vittime e non gliene importava nulla. L’obiettivo era quello di colpire degli odiati ebrei, e probabilmente quello di fare di loro o dei loro corpi merce di scambio per ricattare Israele e fargli scarcerare altri assassini. Qualunque ebreo a caso faceva al caso. È così da circa cento anni, in questa lunga guerra contro la sovranità nazionale ebraica e l’uguaglianza fra le nazioni. Molto prima che la guerra del 1967 e l’”occupazione” fornissero un pretesto per l’odio e l’omicidio, questi atti di disumana violenza erano già comuni. Nel 1929, quando l’antichissima comunità ebraica di Hebron venne massacrata e cancellata (oggi si parlerebbe di pulizia etnica), non c’era nessuna “spirale della violenza”: fu un atto del tutto unilaterale. Nel novembre del 1947, quando tutti i capi arabi respinsero il piano minimalista di spartizione del paese approvato dall’Onu e lanciarono un’ondata di terrorismo di massa contro la comunità ebraica, non c’era nessuna “spirale della violenza”. E la guerra del 1967, che ha portato alla successiva “occupazione”, venne innescata dal rinnovato tentativo di Nasser di distruggere lo stato ebraico cancellando la presenza ebraica in questo paese: non era in atto nessun “botta e risposta”, nessuna “spirale di vendette”. Allo stesso modo, oggi, non c’è nessuna “spirale di violenza” né una “faida di vendette”, come molti giornalisti, diplomatici e sedicenti attivisti dei diritti umani amano sostenere. La spirale implica simmetria, un insensato botta e risposta in cui tutte le parti possono essere ritenute moralmente responsabili. Ma l’attacco e la difesa, il terrorismo e l’anti-terrorismo, l’istigazione all’odio e il timore di quell’istigazione non sono affatto simmetrici né moralmente equivalenti. Quando diplomatici e accademici ripetono la metafora della “spirale” e disciplinatamente esortato “entrambe le parti alla moderazione”, come hanno fatto l’Unione Europea, l’Onu e persino gli Stati Uniti dopo il sequestro dei tre ragazzi, non fanno che sostenere una pericolosa finzione. Quando i giornalisti si inventano un artificiale equilibrio e un’equivalenza immorale tra aggressore e vittima, quando una ong (organizzazione non governativa) finanziata con fonti dei contribuenti europei o americani mette sullo stesso piano la madre palestinese fiera del proprio figlio terrorista, con le madri di Gilad, Naftali e Eyal, fa un’operazione fondamentalmente immorale. Per anni i palestinesi e i loro sostenitori hanno spacciato la menzogna dei terroristi assassini nelle carceri israeliane come una sorta di prigionieri politici colpevoli unicamente d’aver preso parte a una “spirale di violenze” per opporsi all’”occupazione” sebbene con mezzi violenti. Fondi europei dedicati alla tutela dei diritti umani hanno incanalato soldi pubblici a sostegno di ong che promuovono questa falsità e pubbliche campagne in suo nome. In questo mondo immaginario, la falsa simmetria – oltreché essere immorale – alimenta false speranze: il conflitto profondo contro l’autodeterminazione ebraica a prescindere dalle frontiere, viene sostituita da una semplicistica immagine speculare. Scompaiono i terroristi indottrinati all’odio e alla violenza per lasciare il posto a “combattenti” palestinesi intrappolati loro malgrado in un circolo vizioso di botta e risposta. L’indottrinamento all’odio verso israeliani e all’uccisione degli ebrei che pervade televisioni e scuole palestinesi viene falsamente dipinto come se avesse un parallelo in Israele. Ecco che allora non serve altro che un po’ di buona volontà per spezzare questo ciclo maligno: basta riconoscere la “narrazione” e le paure dell’”altro”. La simmetria immaginaria viene posta a fondamento della ricetta per la pace: che infatti fallisce. Infatti la triste realtà, come abbiamo tragicamente appreso ancora una volta, è che le differenze tra la società palestinese e la società israeliana restano radicali e fondamentali, così come il contrasto fra i loro obiettivi e le aspirazioni di fondo. Il tentativo di cancellare queste differenze ripetendo mantra semplicistici basati su un’immaginaria “spirale di violenza” porta tragicamente fuori strada. Sono manovre violentemente immorali». (Da: Times of Israel, 1.7.14)

Scrive Herb Keinon, sul Jerusalem Post: «Il trauma nazionale che ha avuto inizio diciotto giorni fa si è concluso nel peggiore dei modi, lunedì sera, fra le sterpaglie poco fuori Halhoul. Quei ragazzi, portati via con la forza e assassinati mentre non facevano altro che tornare a casa da scuola, avrebbero potuto essere i figli di chiunque. È questo è uno dei motivi per cui siamo tutti così colpiti. Parte del mondo, nella sua ottusità, ci ha messo subito in guardia contro una reazione “sproporzionata”. Come se si fosse una reazione “proporzionata” a tre ragazzi sequestrati e uccisi per nessun altro motivo che quello di essere ebrei. E questo, nel civile e illuminato XXI secolo. Quale sarebbe esattamente una reazione “proporzionata”? Traumi come questo non vengono facilmente dimenticati. Lasciano cicatrici: non solo nelle famiglie, ovviamente, ma nella nazione. Questo tipo di ferocia lascia un segno nella psicologia nazionale. Non solo la ferocia dell’atto in sé, ma anche la gioia con cui tanti dall’altra parte hanno accolto la notizia del sequestro, la gioia grottescamente esibita su Facebook col saluto delle tre dita (a dileggiare i tre ragazzi rapiti). I sequestri, gli omicidi, il sostegno che i rapitori hanno ricevuto da così tanti dei loro, e gli appelli per altri rapimenti di innocenti a scopo di ricatto rivelano un odio da cui cerchiamo di distogliere gli occhi, ma che di tanto in tanto salta fuori e ci ricorda dolorosamente dove viviamo e cosa dobbiamo fare. E lascia il segno. Coloro all’estero che non riescono a capire perché Israele non è più “flessibile”, perché non sembra disposto a fare altri “sacrifici per la pace”, perché costruisce una barriera di sicurezza o impone posti di blocco, non capiscono quanto incidenti come questo lascino il segno. Per capire Israele, per capire tanto di quello che fa questo paese fa, è necessario capire l’insicurezza che rode la mente dopo attentati come questo: dopo i rapimenti, dopo i razzi sparati a caso sulle città, dopo le bombe fatte saltare nei bar e negli autobus. Incidenti che sfibrano la volontà di “assumersi dei rischi in nome della pace”. Questo paese conosce fin troppo bene gli atti di crudeltà casuali. Ciò che dice così tanto del carattere di questa nazione, però, è il fatto che non si fa logorare né soggiogare da questi atti, e continua il proprio cammino: costruisce, cresce, si sviluppa, va avanti e diventa più forte». (Da: Jeruslem Post, 1.7.14)