Non una gran scelta

Sulla questione centrale che dovranno affrontare, i candidati palestinesi non offrono davvero una grande varietà di scelta.

Editoriale del Jerusalem Post

image_502Il primo ministro Ariel Sharon ha sottolineato domenica quanto sia vitale che Israele venga visto in tutto il mondo come collaborativo riguardo alle imminenti elezioni per la presidenza dell’Autorità Palestinese. È senz’altro vero. Sono già troppi nella comunità internazionale coloro che approfittano di ogni occasione per incolpare Israele di qualunque cosa vada storta. E comunque, come hanno ribadito George W. Bush e Tony Blair, la democrazia resta il fattore chiave per una pace duratura. Per cui, se queste elezioni palestinesi costituiscono un passettino in questa direzione, esse sono sicuramente nell’interesse di Israele.
Ma Shron potrebbe rivelarsi troppo ottimista quando si aspetta che le elezioni producano un sicuro partner per future esplorazioni lungo la road map per la pace. Non ci si può nascondere che le voci che provengono per ora dalla campagna elettorale palestinese non sono esattamente quelle più adatte a infondere speranze fra gli israeliani. Non si tratta solo del discorso intransigente con cui Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha scelto di lanciare la sua campagna. Di fatto non pare esservi nessun altro candidato capace di produrre una piattaforma un po’ più moderata. Allo stato attuale delle cose sembra che la competizione si svolga fra intransigenti che differiscono tra loro più sui mezzi che sui fini.
Detto questo, è senz’altro incoraggiante il fatto che più di 500 eminenti personalità palestinesi abbiano firmato un appello a sostegno, sebbene un po’ ambiguo, dell’appello di Abu Mazen per la fine delle violenze contro Israele. Allo stesso tempo, tuttavia, Abu Mazen esplicitamente si ammanta del retaggio di Yasser Arafat e fa di tutto per mostrare massimo rispetto verso quegli stessi terroristi che dice di non sostenere. Abu Mazen si è premurato di mettere bene in chiaro che non esiste differenza fra il suo programma è quello di Arafat. Quand’anche meditasse di imboccare in futuro una strada diversa, rischia di trovarsi intrappolato nella sua stessa retorica militante e nell’unanimismo intransigente che avrà contribuito a costruire.
Hamas, dal canto suo, non gareggia contro Abu Mazen nelle elezioni per la presidenza dell’Autorità Palestinese, ma ha candidato i suoi uomini nella prima tornata di elezioni amministrative in 26 municipalità. Sebbene si trattasse, a quanto è dato sapere, di roccaforti di Fatah, Hamas ha ottenuto risultati inaspettatamente lusinghieri. Il voto non deve essere per forza visto come un pieno sostegno a tutte le posizioni di Hamas. I comportamenti elettorali erano in parte influenzati da fedeltà famigliari e di clan. Tuttavia nessuno nega l’affermazione di Hamas, considerata da più parti come un segno di protesta contro la corruzione e l’anarchia che imperversano nell’Autorità Palestinese. Dato questo scontento, ci si aspetterebbe una grande varietà di scelte alle elezioni per la presidenza. Invece, per quanto riguarda la questione centrale che il prossimo governo palestinese dovrà affrontare – se e come negoziare con Israele la formazione di uno stato palestinese – non c’è davvero una grande varietà scelta.
Ciò che manca drammaticamente nell’equazione palestinese è un vero “campo della pace”: un campo della pace che non deve necessariamente sposare il punto di vista di Israele – come fa invece il campo della pace israeliano con quello palestinese –, ma che sia un soggetto capace di sostenere, come fanno anche i nazionalisti israeliani, che l’interesse nazionale palestinese richiede di fare “dolorose concessioni”. Possibile che non vi sia nessun palestinese, né fra i “moderati” né fra gli “estremisti”, che sia in grado di schierarsi su un chiaro programma basato su clausole accettabili sia per Israele che per i palestinesi e pienamente coerenti con la soluzione “due popoli due stati” sostenuta da Israele e dal resto del mondo?
Purtroppo sembra che il tabù della piena riconciliazione con Israele come stato degli ebrei dotato del diritto morale di esistere in questa regione sia ancora troppo forte perché anche i più coraggiosi politici palestinesi possano spezzarlo. Non si ode neanche una parola detta in pubblico nei territori a favore di una vera coesistenza, per non dire di un’autentica accettazione di Israele. Al massimo si percepiscono riluttanti disponibilità a una sorta di tregua limitata, a condizioni altamente problematiche per Israele.
Alla fine potrebbe risultare che Israele non ha nulla da guadagnare dalle elezioni palestinesi. Oppure potrebbe darsi che l’ottimismo di Sharon si dimostri ben riposto. Speriamo che si avveri la seconda ipotesi.

(Da: Jerusalem Post, 27.12.04)

Nella foto in altro: 23 dicembre, il capo dell’Olp Mah e il pm palestinese Ahmed Qurie (Abu Ala) rendono omaggio alla tomba di Yasser Arafat lo scorso 23 dicembre.