Nuova escalation a Gaza: c’è dietro l’Iran, che teme le trattative mediate da Egitto e Usa e il disgelo arabo verso Israele

Hamas e Jihad Islamica hanno bisogno di una “vittoria” simbolica per giustificare il totale fallimento della campagna di violenze ai confini fra Gaza e Israele

Con un’analisi di Ron Ben Yishai

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu con il sultano d’Oman Qaboos bin Said, venerdì scorso a Mascate

A seguito della visita a sorpresa in Oman del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro degli esteri del sultanato del Golfo, Yussef bin Alawi bin Abdullah, ha dichiarato sabato che Israele dovrebbe essere accettato nella regione e ha offerto l’assistenza dell’Oman per favorire colloqui di pace israelo-palestinesi. Intervenendo a un vertice sulla sicurezza tenutosi in Bahrain, bin Abdullah ha spiegato che l’Oman non farebbe da mediatore, ma potrebbe offrire idee per i negoziati, e ha espresso sostegno agli sforzi di pace guidati dal presidente Usa Donald Trump. “Israele è uno stato presente nella regione e questo lo capiamo tutti – ha detto bin Abdullah, citato dalla Reuters – Anche il resto del mondo è consapevole di questo fatto, e forse è tempo che Israele venga trattato allo stesso modo e abbia anche gli stessi obblighi”.

Il commento ha fatto seguito alla inconsueta visita di Netanyahu, il primo leader israeliano a recarsi in Oman da oltre due decenni. Netanyahu e la moglie Sara si sono recati venerdì a Mascate dove hanno incontrato il sultano Qaboos bin Said, che li aveva invitati “dopo lunghi contatti tra i due paesi”, ha detto l’ufficio del primo ministro. Una dichiarazione congiunta diramata successivamente da Gerusalemme e Mascate afferma che i due statisti hanno discusso “i modi per far progredire il processo di pace in Medio Oriente, così come diverse questioni di interesse comune riguardo al raggiungimento della pace e della stabilità in Medio Oriente”. Sabato, il ministro degli esteri dell’Oman ha detto che, nel momento in cui sostiene gli sforzi di pace israelo-palestinesi, l’Oman “non sostiene che ora la strada sia facile e lastricata di fiori, ma che la nostra priorità è porre fine al conflitto e muovere verso un mondo nuovo”.

Israele non ha relazioni diplomatiche formali con l’Oman, come con la maggior parte dei paesi arabi. Ciò nonostante, in passato era già accaduto che alti rappresentanti israeliani incontrassero il sultano omanita. Sempre al vertice di sabato, il ministro degli esteri del Bahrein, Khalid bin Ahmed Al Khalifa, ha espresso sostegno agli sforzi dell’Oman volti a promuovere la pace israelo-palestinese, e il ministro degli esteri saudita Adel Al-Jubeir ha detto che i colloqui di pace aiuterebbero a normalizzare i legami diplomatici tra Israele e mondo arabo.

Un funzionario israeliano a conoscenza dei  dettagli della visita di Netanyahu ha detto al New York Times che il viaggio potrebbe portare a ulteriori aperture diplomatiche per Israele dal momento che l’Oman è percepito come un equo mediatore da tutti i paesi del Medio Oriente. Il funzionario ha anche detto che Israele potrebbe ricorrere all’Oman come canale secondario di comunicazione con Siria e Iran.

Razzo palestinese caduto su Netiv HaAsara

La visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Oman della scorsa settimana è stata denunciata dai palestinesi come una inaccettabile forma di “normalizzazione” con Israele. Funzionari dell’Autorità Palestinese a Ramallah si sono detti totalmente all’oscuro della visita di Netanyahu a Mascate, dove pure il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) era stato in visita all’inizio della settimana. I palestinesi sostengono che qualsiasi forma di “normalizzazione” tra Israele e paesi arabi dovrebbe avvenire solo dopo che fosse “risolta la questione palestinese”. Il vice presidente del parlamento palestinese Hassan Khreisheh ha lamentato sabato una “rapidità senza precedenti da parte dei paesi arabi nel normalizzare i rapporti con Israele”.

La visita di Netanyahu in Oman è stata la prima di un premier israeliano dopo quella nel 1996 dell’allora primo ministro Shimon Peres, che inaugurò uffici di rappresentanza commerciale fra i due paesi. L’Oman chiuse unilateralmente gli uffici nel 2000 con lo scoppio della cosiddetta seconda Intifada. Attualmente Israele ha relazioni diplomatiche complete con solo due stati arabi: Egitto e Giordania.

Domenica, per la prima volta nella storia, l’inno israeliano è stato suonato durante la cerimonia di premiazione del Grand Slam di judo ad Abu Dhabi dove il judoka israeliano Sagi Muki ha vinto una medaglia d’oro. In lacrime per la commozione la ministra israeliana della cultura e dello sport, Miri Regev, che ha accompagnato la squadra alla competizione. Negli anni scorsi gli organizzatori del Grand Slam di Abu Dhabi avevano impedito alla squadra israeliana di competere con i simboli del proprio paese. Quando l’israeliano Judoka Tal Flicker aveva vinto l’oro nel Grand Slam del 2017, al posto dell’inno israeliano era stato suonato l’inno della Federazione Mondiale di Judo. Anche quest’anno, comunque, gli organizzatori hanno evitato di issare le bandiere dei paesi partecipanti.

(Da: Times of Israel, Jerusalem Post, YnetNwes, 28.10.18)

La Jihad Islamica palestinese ha dichiarato il cessate il fuoco dopo un fine settimana particolarmente violento durante il quale i palestinesi della striscia di Gaza hanno lanciato più di 40 razzi e colpi di mortaio sul sud di Israele, e le Forze di Difesa israeliane hanno reagito colpendo più di 80 obiettivi terroristici, di cui una decina appartenenti alla Jihad Islamica che aveva esplicitamente rivendicato i lanci di razzi. Distrutti, tra l’altro, un quartier generale di Hamas ancora in costruzione e almeno due officine per la produzione di armi, oltre a varie basi di addestramento e depositi di munizioni. L’attacco palestinese e la reazione israeliana hanno avuto luogo fra le 10 di sera di venerdì e le 11 di mattina di sabato, ed è stato lo scambio più pesante dallo scorso agosto. I 17 razzi che rischiavano di abbattersi su zone abitate israeliane sono stato intercettati in tempo dal sistema difensivo “Cupola di ferro”. Domenica una squadra di artificieri della polizia israeliana è intervenuta per asportare un razzo palestinese che si era abbattuto nel cortile di una scuola di Sha’ar HaNegev.

Quartiere generale di Hamas, in costruzione a Gaza, dopo l’attacco dell’aviazione israeliana in risposta ai lanci di razzi

Sabato il portavoce della Jihad Islamica ha dichiarato che era stata raggiunta una tregua mediata dall’Egitto, circostanza non confermata dalle autorità israeliane. Di fatto, comunque, gli attacchi di razzi sono cessati, e con essi la reazione israeliana.

Il portavoce delle Forze di Difesa israeliane Jonathan Conricus ha accusato Siria e Iran di coinvolgimento nell’attacco di razzi. “Sono arrivati ordini e stimoli da Damasco, con un chiaro coinvolgimento della Forza al-Quds della Guardia Rivoluzionaria iraniana”, ha detto Conricus ai giornalisti. E ha avvertito: “La nostra risposta non è geograficamente limitata”.

Un altro portavoce dell’esercito israeliano, Ronen Manelis, ha detto sabato che Israele reputa Hamas responsabile delle violenze. “La Jihad Islamica non aspetta di ottenere luce verde da Hamas per sparare razzi – ha spiegato – Tuttavia, una volta che Hamas permette lo scatenarsi di violenze alla barriera di confine, non può stupirsi che altre fazioni lancino razzi”. Durante la giornata di venerdì, circa 16mila attivisti palestinesi avevano dato l’assalto in più punti al confine fra Gaza e Israele con lanci di ordigni incendiari e granate. Negli scontri con i militari israeliani che ne sono seguiti, sono rimasti feriti alcuni soldati mentre quattro palestinesi sono rimasti uccisi, di cui uno dallo scoppio della sua stessa granata.

Anche il portavoce Manelis ha detto che il lancio di razzi è stato diretto da Damasco e dalla Forza al-Quds iraniana. La posizione delle Forze di Difesa israeliane, ha aggiunto, è che nessuno che attacca Israele può considerarsi immune “né dentro né fuori la striscia di Gaza”.

Il Coordinatore delle attività governative israeliane nei Territori, Kamil Abu Rokon, ha detto che uno dei razzi palestinesi ha colpito un valico usato dalle ambulanze per trasferire fuori dalla striscia di Gaza i casi umanitari d’emergenza. “Fino a che livello intendono abbassarsi le organizzazioni terroristiche di Gaza?” si è chiesto Abu Rukun sulla sua pagina Facebook in arabo.

Razzi palestinesi intercettati dal sistema antimissile Cupola di ferro nel cielo sopra Ashkelon

Nel frattempo, nonostante i successi del sistema “Cupola di ferro”, dopo otto mesi di attacchi cresce l’esasperazione fra gli abitanti delle comunità israeliane prossime alla striscia di Gaza e la loro richiesta al governo di interventi più efficaci. “Hamas vuole fare la guerra e noi bombardiamo edifici vuoti – ha detto a Israel HaYom Ariel Shagerman, del kibbutz Or HaNer – Per quanto tempo si può andare avanti così? Noi vogliamo vivere e lavorare in pace”. Gli fa eco Leah Orman, di Sderot: “Otto mesi di attacchi e incendi dolosi, e ogni volta i razzi si avvicinano di più e vogliono ucciderci. E’ terribile”. Domenica (che in Israele è giorno feriale) i residenti della zona hanno deciso di non mandare i figli a scuola come atto di protesta contro le continue violenze. Meirav Cohen, del kibbutz Ein HaShlosha, ha detto in un’intervista a YnetNews che la protesta non ha connotazioni politiche e nasce da pura e semplice frustrazione. “Non possiamo continuare a vivere con questa guerra di logoramento, non possiamo continuare ad aspettare che arrivi il disastro. Bisogna capire che qui ci sono cittadini con gli stessi diritti di tutti gli altri, non siamo di cittadini seconda classe. Questo non è il modo di vivere”.

In perfetto stile mafioso, sabato Hamas ha chiesto che Israele trasferisca al gruppo terroristico di Gaza 15 milioni di dollari in contanti ogni mese provenienti dal Qatar se vuole evitare un’ulteriore escalation. Secondo quanto riportato da Hadashot TV, in un documento consegnato all’Egitto il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha aggiunto che l’organizzazione si aspetta che Israele trasferisca i soldi entro giovedì. La richiesta di contanti avrebbe lo scopo di aggirare il meccanismo israeliano di coordinamento e supervisione finora in vigore volto a garantire che l’Autorità Palestinese paghi gli stipendi ai lavoratori di Gaza in modo trasparente. Domenica mattina il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che “in nessun momento Israele accetterà alcun ultimatum di Hamas: Israele continuerà ad agire secondo gli interessi degli israeliani e soltanto per la sicurezza di Israele”.

(Da: Jerusalem Post, Israel HaYom, YnetNews, 27.10.18)

Ron Ben-Yishai

Scrive Ron Ben Yishai: La Jihad Islamica palestinese, che ha rivendicato l’escalation nella striscia di Gaza dello scorso fine settimana, normalmente opera in coordinamento con Hamas. Essendo la seconda più grande e più forte organizzazione militare a Gaza, si sente responsabile verso gli abitanti della striscia e fa da tacito complice del regime di Hamas. Dal punto di vista ideologico e religioso, la Jihad Islamica palestinese non è molto diversa da Hamas: altra ragione per la stretta cooperazione tra le due fazioni. La principale differenza tra la Jihad Islamica e Hamas, oggi, è principalmente il loro rapporto con l’Iran. Hamas riceve sostegno finanziario e aiuti tecnologici dalla Repubblica Islamica nonostante si tratti di un’organizzazione sunnita e nonostante gli attriti che ci sono stati fra Hamas e il regime degli ayatollah sulla guerra civile siriana. Dal canto suo la Jihad Islamica, anch’essa sunnita, si è sottomessa quasi completamente all’Iran. Come l’organizzazione libanese Hezbollah, la Jihad Islamica palestinese riceve da Teheran non solo denaro e armi, ma anche ordini. Questo deve essere anche il motivo per cui ha innescato l’escalation lo scorso fine settimana.

Un alto ufficiale della sicurezza israeliana condivide questa valutazione, sottolineando che la nuova dirigenza dell’organizzazione, che ora risiede a Damasco, è molto più estremista di quella di Ramadan Shalah, ed è più devotamente al servizio degli iraniani. Così la Jihad Islamica di Gaza sta cercando di creare un nuovo equilibrio di forze con il lancio di razzi ogni volta che si registrano vittime negli assalti palestinesi al confine fra Gaza e Israele. “Non abbiamo intenzione di permettere novità di questo tipo – dice l’alto ufficiale della sicurezza – Non permetteremo alla Jihad Islamica di lanciare razzi contro Israele senza una nostra pesante risposta militare, e non permetteremo alla Jihad Islamica di fare quello che vuole con il tacito assenso di Hamas”.

Cosa è dunque successo lo scorso fine settimana che ha spinto la Jihad Islamica a violare il contenimento voluto da Hamas sotto pressione egiziana? La causa principale sarebbe la notizia, venerdì, che gli egiziani avrebbero finalmente raggiunto intese con Hamas per ripristinare la calma a Gaza più o meno negli stessi termini adottati dopo la guerra dell’estate 2014. Un’altra spiegazione sta nel viaggio di Netanyahu in Oman e nei colloqui diplomatici che ha avuto con il sultano Qaboos bin Said. Gli iraniani, che hanno visto e ascoltato le notizie da Gaza e dall’Oman, temono che un accordo sulla striscia consenta agli americani di fare una mossa verso la presentazione del loro piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese. Non vogliono che ciò accada e stanno facendo tutto il possibile per bloccare una simile mossa. Teheran sta anche cercando di creare pressione per impedire al presidente Trump di re-imporre una seconda ondata di sanzioni mirate contro l’esportazione e la vendita di petrolio. In altre parole, gli iraniani cercano di creare pressione sabotando gli interessi americani circa Israele per risparmiarsi sanzioni più dure. È quindi abbastanza chiaro come mai la Jihad Islamica infiammi la situazione al servizio dei suoi padroni di Teheran, agendo contro l’interesse di Hamas che vorrebbe portare a termine le trattative con gli egiziani.

Inoltre la dirigenza della Jihad Islamica ha le sue proprie ragioni. Tutte le fazioni palestinesi a Gaza, soprattutto Hamas e Jihad Islamica, vogliono non solo un accordo che porti a una tregua che migliori le condizioni di vita degli abitanti della striscia, ma anche una “vittoria” da poter sbandierare. Vogliono un accordo alle loro condizioni da poter presentare come un successo militare della “resistenza” contro Israele. Le fazioni di Gaza non vogliono ammettere che la campagna della “marcia del ritorno” contro i confini d’Israele è stata un totale fallimento. Vogliono poter sostenere che il sangue versato al confine non è stato invano, e quindi hanno bisogno di una “vittoria” psicologica. Pertanto, all’avvicinarsi di un accordo di tregua, la Jihad Islamica cerca di avere l’ultima parola con il botto finale per poter sostenere che la “marcia del ritorno” e il terrorismo degli incendi dolosi hanno “costretto” Israele ad accettare i termini dell’accordo concordato dagli egiziani. La Jihad Islamica può permettersi di scatenare la “raffica finale” di razzi perché sa che Israele ha preso la decisione strategica di non lanciare un’operazione di terra su vasta scala dentro Gaza. E’ così che sia la Jihad Islamica che Hamas sono disposte a subire gravi danni alle loro strutture militari pur di vantare quella “vittoria” psicologica: per non perdere la faccia a Gaza nel caso in cui venga raggiunto un cessate il fuoco duraturo, e per far contenti i loro padrini a Teheran.

Immagine del lancio di un razzo da Gaza contro Israele tratta da un video diffuso Domenica mattina dalla Jihad Islamica Palestinese

Israele è consapevole di questo schema, che si è consolidato dallo scorso agosto. Gli egiziani trattano con Hamas e Jihad Islamica. Le due organizzazioni promettono moderazione, ma continuano con le violenze della “marcia del ritorno” e con gli aerostati incendiari. Di tanto in tanto, magari quando ci sono difficoltà nelle trattative con gli egiziani, Hamas, Jihad Islamica o altre fazioni sciolte lanciano di nuovo i razzi, mentre la dirigenza politica di Hamas finge di guardare da un’altra parte. Dopodiché riprendono i colloqui con gli egiziani, con Israele che dà all’Egitto il margine di manovra necessario per arrivare a un’intesa stabile.

I responsabili israeliani, principalmente il primo ministro Netanyahu, il ministro della difesa Avigdor Lieberman e il capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, hanno deciso che in ogni caso è meglio lasciare che gli egiziani esauriscano le loro capacità di influenza su Hamas. E finché le trattative continueranno, Israele potrà accontentarsi di risposte misurate e contenute alle violenze di confine, agli incendi dolosi e anche ai lanci di razzi. Il sistema “Cupola di ferro” dà ai responsabili della sicurezza la sensazione di poter reggere l’erosione del senso di sicurezza dei residenti israeliani attorno alla striscia di Gaza finché non si sia costretti, da qualche tragedia, a lanciare un’operazione su larga scala nella striscia che costerebbe vite umane e danni economici, e che terminerebbe esattamente come l’operazione dell’estate 2014 e quelle che l’hanno preceduta. In questo senso, “Cupola di ferro” non solo salva vite umane in Israele, ma scongiura anche lo scoppio di una devastante guerra a Gaza.

Israele tollera questa situazione perché, tra l’altro, vuole che prosegua la stretta cooperazione con l’Egitto, e perché i suoi responsabili della sicurezza capiscono che non avrebbe senso in questo momento una grande campagna militare a Gaza senza la delicatissima decisione di rioccupare Gaza e tenerla per oltre un anno allo scopo di stabilirvi un regime diverso. Tanto più che non è affatto sicuro che sarebbe possibile scovare un regime diverso e migliore che fermi gli attacchi di razzi e le violenze al confine. Intanto Israele utilizza questi round di scontri, periodicamente scatenati dalle organizzazioni terroristiche palestinesi, per distruggere sistematicamente porzioni consistenti delle strutture militari di Hamas e simili per dare l’esempio, ma anche perché siano fuori uso il giorno in cui le Forze di Difesa israeliane dovessero davvero entrare in guerra a Gaza.
(Da: YnetNews, 28.10.18)