Nuove minacce, vecchie concezioni

Bisogna prendere atto dei cambiamenti se si vuole garantire la stabilità in Medio Oriente

Da un articolo di Dore Gold

image_1560Il capo dell’intelligence Usa John Negroponte ha recentemente presentato una valutazione aggiornata della situazione in Medio Oriente. In sostanza afferma che è necessario un cambiamento strategico a causa della crescente influenza dell’Iran nella regione che si aggiunge alla minaccia legata ai progetti nucleari iraniani. La caduta di Saddam e dei Talebani, la crescita delle entrate petrolifere, la vittoria di Hamas alle elezioni nell’Autorità Palestinese, la sensazione di vittoria di Hezbollah nella guerra contro Israele: tutto questo, secondo Negroponte, rafforza la crescente ombra di Teheran sul Medio Oriente.
In effetti negli ultimi anni abbiamo assistito in Medio Oriente a mutamenti rivoluzionari che richiedono una seria revisione delle analisi sotto vari aspetti. Durante quasi tutti gli anni ’90 la percezione condivisa in molti ambienti era che la chiave della stabilità nella regione fosse da cercare nella risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Di conseguenza gli sforzi diplomatici dei paesi occidentali vennero focalizzati soprattutto in questo settore. Questo paradigma tradizionale si combinava con il presupposto che il confitto potesse essere risolto in un arco di tempo relativamente breve. La speranza era che sforzi diplomatici dispiegati per un certo numero di anni sarebbero infine approdati a un trattato di pace regionale globale comprendente Israele, i palestinesi e i paesi arabi.
Oggi invece diventa sempre più difficile sostenere che il conflitto arabo-israeliano sia la vera causa dell’instabilità in Medio Oriente. Le radici storiche immediate della crescita dell’islamismo estremista possono essere rintracciate in due eventi che non hanno alcun nesso con il conflitto fra israeliani e arabi: la rivoluzione khomenista in Iran del 1979 e la sconfitta dell’Urss in Afghanistan nel 1989 che diede vita al al-Qaeda.
Nell’avvento per la prima volta di un regime sciita in Iraq la repubblica islamica iraniana ha visto un’occasione storica per emergere come massima superpotenza mediorientale, diffondere la sua influenza sulle vicine comunità sciite e raggiungere anche gli arabi sunniti scavalcando i loro attuali governi. Sarebbe un grave errore considerare l’ascesa dell’attivismo sunnita e sciita come due fenomeni separati senza influenza reciproca.
Già negli anni ’90 l’Iran aveva cercato di infiltrare il regime islamico in Sudan, e per anni ha sostenuto organizzazioni sunnite come la Jihad Islamica palestinese, mentre ora si vede come sia anche la più significativa fonte di sostegno a Hamas. La guerra in Iraq ha inasprito le tensioni fra sunniti e sciiti in tutto il Medio Oriente, spingendo leader sunniti come re Abdullah di Giordania e denunciare apertamente i pericoli legati a una “Mezzaluna sciita” che accerchierebbe il cuore del Medio Oriente. Alla luce dell’atteso ritiro dell’America dall’Iraq, la leadership saudita esprime viva preoccupazione per la possibilità che gli sciiti iracheni scatenino una pulizia etnica, col sostegno dell’Iran, a danno della minoranza sunnita irachena.
Si può dunque ipotizzare che la rivalità sunniti-sciiti emergerà nei prossimi anni come l’asse centrale dei conflitti mediorientali. Alla luce della minaccia che si trovano ad affrontare i paesi arabi sunniti, crescerà la loro dipendenza dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali. L’occidente, dal canto suo, non ha bisogno di pagare questa collaborazione imponendo concessioni a spese di Israele.
Nonostante tutto questo, è sorprendente vedere come molti politici occidentali, mentre hanno luogo questi mutamenti rivoluzionari, restino ancorati a nozioni e concezioni vecchie di un decennio circa il modo di stabilizzare il Medio Oriente. È tempo invece di riformulare la politica occidentale sulla base di nuovi principi che riflettano la realtà regionale in mutamento.
1. La principale minaccia ai paesi arabi sunniti attualmente proviene dall’Iran e pertanto il conflitto arabo-israeliano non è più in vetta all’agenda degli arabi sunniti. Di fatto oggi israeliani e arabi sunniti hanno la stessa percezione di molte minacce incombenti.
2. Non esiste oggi alcuna opzione diplomatica per risolvere il conflitto israelo-palestinese finché continua l’attuale ondata di estremismo islamista. D’altra parte, si può ipotizzare che ritiri unilaterali israeliani, senza un interlocutore palestinese che possa impegnarsi nei negoziati, non farebbero che incrementare il successo dell’estremismo islamista nella regione, come è accaduto con il disimpegno (da Libano e striscia di Gaza).
3. Per stabilizzare il Medio Oriente occorre neutralizzare tutte le componenti dell’attuale ondata di estremismo islamista. A questo riguardo, è estremamente importante la sconfitta di ogni organizzazione di questo tipo, sia sciita che sunnita, giacché ognuna di queste sconfitte contribuisce a indebolire anche le altre componenti.
4. Israele ha bisogno di confini difendibili. Si può ipotizzare, ad esempio, che un ritiro dalla Valle del Giordano comporterebbe infiltrazioni terroristiche in Cisgiordania su larga scala, compresa l’introduzione clandestina di armi ed esplosivi ed anche di volontari della jihad globale. Pertanto Israele si troverebbe a fronteggiare una situazione molto difficile, come sul corridoio Philadelphia all’indomani del ritiro da Gaza. Allo stesso tempo, il vuoto lasciato da ogni ritiro israeliano attirerebbe un numero sempre maggiore di gruppi della jihad globale nella stessa Giordania, mettendo a repentaglio la stabilità del regno Hashemita e, alla fine, di tutta la regione.

(Da: YnetNews, 23.01.07)

Nella foto in alto: L’autore di questo articolo Dore Gold, già ambasciatore d’Israele all’Onu, ora presidente del Jerusalem Center for Public Affairs