Occupazioni e profughi che “non risultano”

Dubito che verranno prossimamente organizzate delle “Settimane contro l’Apartheid del Myanmar”. E anche i Papuani Occidentali dovranno aspettare

Di Liat Collins

Liat Collins, autrice di questo articolo

Ora ho una nuova cosa di cui preoccuparmi: la povera gente di Papua Occidentale. Beh, qualcuno deve pur preoccuparsi per loro e sembra che non ci sia abbondanza di persone disposte a farlo.

Ammetto che non avevo nessuna idea della loro situazione prima di questa settimana, quando il Jerusalem Post ha pubblicato uno stimolante editoriale di Adam Perry sotto il titolo “I dimenticati di Papua Occidentale”. Perry, un ebreo britannico, ha cominciato a fare ricerche sui conflitti nel mondo dopo aver visto un servizio televisivo su una manifestazione di circa 50 persone davanti all’ambasciata dello Sri Lanka che protestavano contro le torture e le uccisioni di migliaia di tamil. Il giorno dopo si è imbattuto in una manifestazione anti-israeliana nel West End di Londra dove decine di migliaia di persone si erano radunate per protestare contro un raid aereo israeliano “che ha distrutto alcune case e ucciso tre persone”. “Ho iniziato a indagare gli altri conflitti nel mondo e le situazioni critiche dei diritti umani trascurate o totalmente ignorate a causa delle politiche di potenza alle Nazioni Unite e dell’ossessiva passione dei mass-media per Israele”, spiega Perry. Nel corso di un periodo di lavoro in Australia, si interessò sempre più al movimento per l’autodeterminazione del popolo di Papua Occidentale. Al quale farebbe certamente comodo un po’ di pubblicità.

Rimando all’articolo di Perry per tutte le informazioni, ma qui provo a riassumere. Papua Occidentale è la metà ovest dell’isola di Nuova Guinea, al confine con la nazione indipendente di Papua Nuova Guinea, circa 250 km a nord dell’Australia. Dopo secoli di colonizzazione olandese, nel 1961 a Papua Occidentale venne promessa l’indipendenza. Due anni più tardi, mentre il mondo occidentale guardava da un’altra parte, l’Indonesia prese con la forza il controllo dell’area, che risulta ricca di risorse naturali, tra cui l’oro. “Dal 1963 – scrive Perry – circa 500.000 abitanti di Papua Occidentale, più di un quarto della popolazione, sono morti per mano delle brutali forze d’occupazione indonesiane: dati convalidati da diversi studi e da gruppi per i diritti umani (tra cui l’International Association of Genocide Scholars e la Yale Law School). Le uccisioni quotidiane, le torture e le detenzioni senza processo ad opera dall’esercito e della polizia indonesiani proseguono senza conseguenze e con scarsissime condanne”.

Una manifestazione contro l’occupazione di Papua Occidentale

La storia degli sfortunati abitanti di Papua Occidentale mi ha ricordato il destino della perseguitata minoranza indù del Bhutan. Nel maggio 2010 ho scritto a proposito della misera condizione dei circa 100.000 profughi bhutanesi di origine nepalese, cacciati dal regno per essersi rifiutati di vivere secondo le tradizioni buddhiste che lo governano. Da allora, solo di rado mi sono imbattuta in qualche fonte che dà notizie sulla loro situazione. Per qualche perversa ragione i rifugiati bhutanesi non sono considerati materia per titoli da prima pagina, e neanche da pagina interna. La loro situazione è resa ancora più sinistra dal fatto che il principale motivo di celebrità del regno himalayano del Bhutan è che ha ideato l’indice di felicità interna lorda: una misura del benessere psicologico. Come sottolineai all’epoca, “perlomeno i palestinesi hanno imparato l’arte delle pubbliche relazioni: quante persone hanno mai sentito parlare di questa minoranza bhutanese? E chi prende sul serio l’’oppressore’ quando capita che sia buddista anziché ebreo? Accusare gli ebrei per questioni di miseria e profughi è pratica così diffusa da sembrare la norma. Ma incolpare i sorridenti e pacifici buddisti è tanto lontano dal bon ton quanto il Bhutan è lontano da Tel Aviv”.

Per inciso, anche la minoranza cristiana del Bhutan trova la famosa felicità piuttosto elusiva. Secondo la lista World Watch Monitor per il 2016, il Bhutan risulta 38esimo su 50 paesi classificati in base a dove la vita di un cristiano è più ardua. In testa alla lista, per il 14esimo anno consecutivo, la Corea del Nord; ma in 36 paesi sui 50 classificati i cristiani patiscono a causa dell’estremismo islamico.

Una manifestazione anti-Israele a Chicago

Nel 2015 l’Alto Commissario Onu per i rifugiati ha annunciato con orgoglio che era riuscito a reinserire oltre 100.000 profughi bhutanesi dal Nepal in paesi terzi, da quando è partito il programma nel 2007. Sono cifre impressionanti per chiunque abbia dimestichezza con i dati dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite preposta a occuparsi esclusivamente di profughi palestinesi: i quali godono dello status unico al mondo di “profughi perpetui ed ereditari”. I palestinesi le cui famiglie sfollarono nel 1948, quando il mondo arabo scatenò la guerra contro il nascente stato ebraico, continuano a essere considerati profughi quasi 70 anni più tardi: anche quelli che si trasferirono a pochi chilometri di distanza restando all’interno della ex Palestina Mandataria o in paesi limitrofi con cui condividevano lingua e cultura araba, e a maggioranza di religione musulmana. Naturalmente le risorse che vengono spese per perpetuare all’infinito lo status di profughi dei palestinesi potrebbero essere utilmente impiegate per aiutare profughi ben più recenti, molti dei quali musulmani vittime di islamisti in luoghi come la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, la Somalia, il Sudan e la Nigeria, tanto per citarne alcuni. E qui sorge un altro aspetto del problema degli abitanti della Papua Occidentale. Come osserva Perry, l’Indonesia è un membro importante della potente Organizzazione della Cooperazione Islamica, forte di 57 stati.

Papuani occidentali e bhutanesi non buddhisti non sono soli nelle loro sofferenze, e nemmeno nell’essere ignorati da gran parte dai mass-media mondiali e dagli attivisti internazionali. Secondo un rapporto della Reuters dello scorso 9 febbraio, potrebbero essere più di 1.000 i musulmani rohingya uccisi dalla repressione dell’esercito in Myanmar (Birmania, per i lettori più anziani). Il rapporto cita due alti funzionari delle Nazioni Unite, appartenenti a due diverse agenzie che operano in Bangladesh, dove negli ultimi mesi si sono rifugiati quasi 70.000 rohingya. I due funzionari erano preoccupati che il mondo esterno potesse non aver pienamente compreso la gravità della crisi in corso nello stato di Rakhine del Myanmar. Evidentemente essere una minoranza musulmana perseguitata da una maggioranza buddista genera una tale confusione che il liberal medio occidentale preferisce ignorare del tutto il problema. Molto più sicuro demonizzare Israele e considerarlo l’origine di ogni male.

Dubito che nel prossimo futuro verranno organizzate nella vostra città delle “Settimane contro l’Apartheid del Myanmar”. Mi sa che anche i Papuani Occidentali dovranno aspettare a lungo. Le cosiddette “Settimane contro l’Apartheid d’Israele”, invece, si sono diffuse in circa 225 città di tutto il mondo, e durano molto più a lungo dei sette giorni che implica il loro titolo: ma la parte del titolo che implica l’esistenza di un “apartheid” in Israele è una menzogna molto più grande.

(Da: Jerusalem Post, 16.1.17)