Israele chieda il riconoscimento della sua sovranità sul Golan

Prima di avanzare altre offerte e concessioni ai palestinesi, Israele esiga l’istituzionalizzazione del suo confine di sicurezza settentrionale

Di Amiram Levin, Kenneth Bandler

Amiram Levin

Scrive Amiram Levin: L’amministrazione del presidente Usa Donald Trump presenterà presto una propria iniziativa per risolvere il conflitto tra Israele e palestinesi. Nel frattempo in Siria vanno prendendo forma accordi allarmanti tra Stati Uniti, Russia e Iran in merito a spiegamenti di forze non lontano dal confine settentrionale di Israele.

Una risposta israeliana all’iniziativa di Trump dovrebbe essere la richiesta di un riconoscimento internazionale della piena sovranità d’Israele sulle alture del Golan e la richiesta di un accordo globale che non consenta la presenza di forze iraniane e Hezbollah sul versante siriano delle alture del Golan siriano a ovest della strada Damasco-Suwayda e a sud della strada Damasco-Beirut. In cambio dell’adempimento di queste richieste, Israele si impegnerebbe a spianare la strada a negoziati concreti con l’Autorità Palestinese.

Israele ha buone ragioni per chiedere il consolidamento del confine settentrionale come parte di una mossa diplomatica preliminare. E’ una cosa più urgente e importante che non raggiungere accordi e fare concessioni all’Autorità Palestinese.

Al confine fra Israele e Siria

Con gli Accordi di Oslo e quelli che seguirono, Israele fece importanti concessioni, e ne offrì di ancora più significative, mentre in cambio la parte palestinese non offrì e non concesse nulla, nemmeno piani di pace alternativi a quelli che rifiutava, ed anzi continuò a commettere atti di terrorismo contro Israele. Il poco che Israele ha ottenuto è un po’ di cooperazione con l’Autorità Palestinese per la sicurezza in Cisgiordania, e anche questa soltanto dopo la morte di Yasser Arafat.

Ora che giunge sul tavolo una proposta di rinnovo dei negoziati come parte di un più ampio accordo regionale con gli stati arabi “moderati”, è tempo di chiedere qualcosa in cambio prima di offrire ulteriori compromessi. Una contropartita può essere il riconoscimento della sovranità di Israele sulle alture del Golan e accordi per la sicurezza del confine nord di Israele. Si tratta di una contropartita a tutela concreta della difesa di Israele e che dunque renderebbe più facile, per il governo e la società israeliani, muovere verso un altro accordo con l’Autorità Palestinese. E non sarebbe di alcun ostacolo nei negoziati con i palestinesi.

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I grandi cambiamenti che sta attraversando il Medio Oriente, e in particolare gli effetti della feroce guerra civile siriana, hanno cambiato i confini degli stati, e questi confini non torneranno più ad essere quelli che erano sin dai tempi delle intese Sykes-Picot del 1916. E’ giunto il momento di istituzionalizzare come confine internazionale la linea tra Israele e Siria stabilita nell’Accordo di Disimpegno del 1974.

Con un adeguato sforzo diplomatico dovrebbe essere possibile reclutare il sostegno degli stati arabi “moderati”, che vedono come principale minaccia alla stabilità in Medio Oriente la politica aggressiva e terroristica dell’Iran. La posizione di Trump verso Israele e il suo desiderio di conseguire un risultato di politica estera in Medio Oriente, insieme al fatto che il presidente siriano Assad è debole e dipende dalla Russia e da Vladimir Putin, creano una rara opportunità per trarre del buono da una situazione brutta. Oggi Israele può chiedere e ottenere il riconoscimento internazionale della sovranità sulle alture del Golan: un’opportunità che non dovrebbe sprecare.

(Da: YnetNews, 27.11.17)

Kenneth Bandler

Scrive Kenneth Bandler: La gamma di bizzarri intrighi delle Nazioni Unite su Israele sembra senza limiti. Giovedì scorso l’Assemblea Generale dell’Onu ha chiesto, ancora una volta, che Israele si ritirasse completamente dalle alture del Golan e riprendesse i negoziati di pace con la Siria. La risoluzione, adottata con 105 voti contro 6 e 58 astenuti, non fa nemmeno menzione della guerra civile che devasta la Siria, giunta al suo settimo anno. Non è una novità. La risoluzione sul Golan viene meccanicamente riproposta e riapprovata ogni anno dall’Assemblea Generale sin dai primi anni ’80, opportunamente inserita in un pacchetto di misure sulla “situazione in Medio Oriente” composta per lo più di testi a sostegno di tutta una serie di asserzioni palestinesi che additano Israele come unico responsabile e colpevole. Si tratta di testi che vengono ripresentati di routine, senza la minima attinenza con sviluppi e cambiamenti nella regione, per poi essere adottati dalla solita schiacciante maggioranza e aggiunti agli archivi delle Nazioni Unite senza far minimamente avanzare nessuna prospettiva di pace fra arabi e israeliani. Solo gli Stati Uniti, Israele, il Canada, il Regno Unito, la Micronesia e le Isole Marshall hanno votato no alla risoluzione sul Golan. Per il Regno Unito, che l’anno scorso si era astenuto sullo stesso testo, si è trattato di un passo avanti. Trattandosi della Siria, si può dire che la risoluzione ha raccolto un rarissimo consenso nell’Onu. La Russia, che ha sistematicamente bloccato ogni risoluzione significativa sulla Siria dal 2011 a oggi, e ha opposto il veto a ben 10 proposte di delibera del Consiglio di Sicurezza, in questo caso ha votato tranquillamente insieme a tutti gli altri.

Dalla ImageSat International company, che utilizza il satellite Earth Remote Observation System-B, giungono le immagini degli effetti del raid della notte di venerdì scorso su depositi di munizioni della base di al-Kiswah, poco a sud di Damasco, utilizzata da forze iraniane e filo-iraniane

La risoluzione sul Golan esprime “profonda preoccupazione per il fatto che Israele non si sia ritirato dal Golan siriano” e “grave preoccupazione per l’arresto del binario siriano del processo di pace”. Pretende inoltre “che Israele si ritiri da tutto il Golan siriano occupato fino alla linea del 4 giugno 1967″ (per cui, fra l’altro, non si capisce a cosa servirebbero gli invocati negoziati). I paesi che hanno approvato la risoluzione concordano dunque con il ministro degli esteri del regime siriano, Walid Muallem, che nel suo discorso di settembre all’Assemblea Generale ha dichiarato: “E’ pura illusione pensare anche solo per un momento che la crisi in Siria ci farà dimenticare il nostro inalienabile diritto di recuperare completamente il Golan occupato fino alle linee del 4 giugno 1967″.

Nelle delibere delle Nazioni Unite vengono totalmente ignorati sia il contesto storico che la realtà presente. Israele entrò in possesso del Golan nel giugno 1967 nel corso di una guerra difensiva contro Egitto, Siria e Giordania, una coalizione di stati che mirava ad annientare lo stato ebraico solo 19 anni dopo la sua nascita. Prima della guerra, la Siria usava regolarmente le sovrastanti alture del Golan per colpire le comunità israeliane sottostanti, attentare alle fonti idriche di Israele e tenere tutto il nord del paese sotto costante minaccia di invasione. Mentre l’Egitto, e poi la Giordania, hanno sottoscritto trattati di pace con Israele rispettivamente nel 1979 e nel 1994, il despota siriano Hafez Assad si è sempre opposto a ogni reale negoziato con Israele, nonostante le pressioni degli Stati Uniti. Dopo la conferenza di pace del 1991 a Madrid (e il crollo dell’Unione Sovietica), vi furono colloqui tra Israele e Siria, in particolare alla conferenza di Wye Plantation degli anni ’90. E fino al 2010 vi sono stati colloqui segreti tra rappresentanti del presidente Bashar Assad, succeduto al padre dopo il 2000, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma anziché perseguire sinceramente la pace, il regime di Assad ha continuato a sviluppare un grande arsenale di armi chimiche e ha persino tentato di dotarsi di armi nucleari: tentativo sventato da Israele con un raid di legittima difesa nel 2007.

Secondo notizie di stampa, lunedì sera Israele ha attaccato una struttura nell’area di Jamariya, poco a nord di Damasco, nota come uno dei centri di sviluppo e produzione militare del regime siriano, comprese armi chimiche e missili per Hezbollah. La struttura di Jamraya sarebbe già stata colpita da Israele a fine gennaio 2013 e nel maggio dello stesso anno

La questione veramente urgente circa la Siria, oggi, non è chiaramente lo status del Golan, e nemmeno la pace con Israele. È la tragica realtà di un paese massacrato dal suo stesso capo che nel marzo 2011 ha lanciato una guerra spietata contro la propria stessa popolazione. Oggi, con oltre mezzo milione di morti e un terzo della popolazione sfollata all’interno del paese o profuga fuori dalla Siria, i combattimenti non cessano. Eppure emerge un consenso internazionale che accetta che Assad rimanga al potere e che rimangano in Siria i russi e gli iraniani che hanno aiutato il regime a sopravvivere tra le macerie del paese. L’intervento diretto dell’Iran nella guerra, la continua espansione della presenza delle sue forze e i suoi progetti volti a stabilire basi per le sue truppe e per le milizie Hezbollah, la succursale terrorista dell’Iran, vicino all’attuale confine sul Golan, rappresentano una incombente minaccia per Israele. Questi fatti sì che dovrebbero essere al centro delle preoccupazioni degli stati membri delle Nazioni Unite, che invece li ignorano. Da quando in Siria è scoppiata la guerra interna, Israele ha evitato di farsi coinvolgere pur continuando a monitorare attentamente la situazione e a intervenire in modo mirato, principalmente contro Hezbollah, ogni volta che l’ha ritenuto necessario per la propria sicurezza. Intanto, cosa altrettanto importante, ha garantito assistenza medica gratuita a migliaia di siriani feriti, spesso ad opera delle forze del regime.

L’eventualità che un giorno possa riprendere il processo di pace israelo-siriano dipende in gran parte dalle condizioni interne in Siria e dal futuro orientamento di Assad o del suo successore. Come negli altri sforzi di pace arabo-israeliani, il successo potrà arrivare solo da colloqui diretti bilaterali, non dalle paternali delle Nazioni Unite, rivolte solo e soltanto contro Israele. La recente risoluzione sul Golan, dunque, non è altro che l’ennesimo pietoso prodotto dell’Onu, privo di significato.

(Da: Jerusalem Post, 4.12.17)

 

 

 

 

 

 

 

 

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