Ora Israele ha bisogno di un governo, non di riforme elettorali

Le proposte avanzate in questo momento mirano solo a estromettere o mantenere in carica Netanyahu: una situazione che può produrre soltanto cattive riforme

Editoriale del Jerusalem Post

La Knesset (il parlamento israeliano) a Gerusalemme

Dopo quattro elezioni in meno di due anni e ancora nessun chiaro risultato in vista, è del tutto naturale che quello della riforma elettorale sia diventato un tema caldo nella politica israeliana.

Alcuni partiti da tempo hanno messo la questione all’ordine del giorno e nel corso degli anni vari think-tank e studiosi hanno elaborato proposte dettagliate su come migliorare il sistema israeliano. Fra le raccomandazioni più comuni, la proposta di aumentare ulteriormente la soglia elettorale, cioè la percentuale minima che un partito deve ottenere per entrare alla Knesset, che oggi è fissata al 3,25%, oppure quella di attribuire automaticamente l’incarico di formare il nuovo governo al leader del partito di maggioranza relativa. Altri suggeriscono riforme più ampie, come l’elezione dei parlamentari come rappresentanti di collegi elettorali, o varie soluzioni di doppio voto con il quale, il giorno delle elezioni, gli elettori di un partito possano anche indicare una scelta all’interno della lista di quel partito.

Il problema è che gran parte delle riforme proposte di recente ruotano in realtà intorno a punto molto circoscritto. Come tante altre cose nella politica israeliana, in un modo o nell’altro sono tutte incentrate su Bibi: da tutto lo spettro politico, vengono avanzate proposte tese in sostanza a estromettere oppure a mantenere in carica il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Netanyahu è stato primo ministro per 14 anni, 12 dei quali consecutivi. Quindi diversi partiti hanno proposto di porre un limite al numero di mandati di un primo ministro. La leader laburista Merav Michaeli sostiene questa idea da anni. Un altro cambiamento caldeggiato dagli oppositori di Netanyahu è vietare che si possa conferire l’incarico di formare un governo a un parlamentare che è sotto processo. Attualmente la legge israeliana consente a un primo ministro (ma non ai ministri ordinari ndr) di rimanere in carica anche dopo l’incriminazione e l’inizio del processo, fino a quando non venga emesso il verdetto finale in appello.

Quello della riforma elettorale è diventato un tema caldo nella politica israeliana

Entrambe queste proposte avrebbero in pratica l’effetto di destituire Netanyahu dall’incarico e rimescolare il quadro politico, liberando i partiti ultra-ortodossi Shas ed Ebraismo Unito della Torà dai loro impegni nei suoi confronti, col risultato di aprire la strada a una coalizione politica totalmente differente. O di permettere ai politici di destra che hanno fatto campagna sul rifiuto di entrare in un governo Netanyahu (come Gideon Sa’ar di Nuova Speranza e Avigdor Liberman di Yisrael Beytenu) di allearsi nuovamente con il Likud.

Dall’altra parte, ci sono proposte di riforma volte a mantenere Netanyahu in carica. Un’idea che di tanto in tanto è stata lanciata dai sostenitori di Netanyahu negli ultimi anni è quella di approvare la cosiddetta “legge francese” che vieterebbe di mettere sotto processo un primo ministro finché è in carica. A quel punto i partiti che si dicono contrari per principio a entrare in un governo guidato da un primo ministro sotto processo non avrebbero più la giustificazione per restare fuori da un governo guidato da Netanyahu.

Dal canto suo, il leader dello Shas Aryeh Deri ha recentemente proposto il ritorno all’elezione diretta del primo ministro. Netanyahu, leader del partito di maggioranza relativa, risulta costantemente al primo posto nei sondaggi d’opinione su chi sia più adatto ad essere primo ministro e avrebbe buone probabilità di vincere. In questo caso Netanyahu verrebbe automaticamente incaricato di formare un governo e, secondo questa teoria, alcuni dei partiti reticenti ad allearsi con lui sarebbero spinti ad assecondare la volontà dell’elettorato tornando all’ovile. Va tuttavia ricordato che Israele ha già tenuto elezioni dirette del primo ministro negli anni ’90 e il metodo si è rivelato un completo fallimento. Il voto si frammentò ulteriormente e i maggiori partiti persero massicciamente seggi, risultando troppo ridimensionati per poter gestire una coalizione stabile e un governo efficace: due dei tre governi formati dopo le elezioni dirette del primo ministro rimasero in carica per meno di due anni.

E’ chiaro che Israele ha un disperato bisogno di riforme che creino maggiore stabilità nel suo sistema politico e maggiore responsabilità da parte dei suoi rappresentanti. Ma le proposte formulate in questo momento, con in mente una persona in particolare, non sono appropriate. I parlamentari dovrebbero ricordare l’adagio secondo legiferare sotto la pressione di situazioni intricate produce cattive riforme. L’estrema divisione in cui è precipitata la politica israeliana non deve spingere a varare in fretta e furia una legge generale che incatenerebbe il sistema in futuro.

Ciò che occorre, adesso, è che i politici mettano da parte il loro ego e i veti incrociati e cerchino di collaborare per il bene del paese a lungo termine. Dopodiché, una volta varato un governo funzionante, lavorando in commissioni legislative dove si esprima l’intera gamma di posizioni politiche della Knesset, Israele potrà concepire la riforma elettorale di cui ha veramente bisogno.

(Da: Jerusalem Post, 20.4.21)