“Ora tocca a lei, signor Abu Mazen”

Di fronte al rinnovato e comprovato impegno israeliano per una pace negoziata.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2986Il governo israeliano si sta indirizzando verso l’accoglimento della richiesta dell’amministrazione Obama di rinnovare per altri tre mesi il congelamento delle attività edilizie ebraiche in Giudea e Samaria (Cisgiordania). Il sostegno del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a questa misura e la disponibilità del partito Shas ad astenersi porteranno probabilmente all’approvazione del piano da parte dell’appropriato organismo governativo.
Si tratta di un passo necessario: non solo e non tanto perché gli Stati Uniti hanno chiesto la proroga della moratoria in cambio di un pacchetto di incentivi sulla sicurezza, di varie intese non meglio specificate in materia di politica nucleare dell’Iran e di Israele, e di jet militari per un valore di tre miliardi di dollari. Su questo, vogliamo credere, gli elementi centrali del pacchetto, sebbene tutt’altro che trascurabili, saranno valutati in ogni caso in conformità agli interessi reciproci sia di Israele che degli Stati Uniti. Né si tratta, qui, dell’impegno che avrebbe preso Washington ad utilizzare il suo diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza per bloccare i tentativi da parte palestinese di proclamare in quella sede uno stato autonomo in Cisgiordania: in effetti sarebbe difficile immaginare, in qualunque prevedibile scenario, un’America che al contrario incoraggiasse uno sviluppo unilaterale tale da lasciare irrisolti tutti nodi cruciali del contenzioso.
Il significato dell’accoglimento da parte di Israele di un ulteriore congelamento starebbe piuttosto nel rinnovato e comprovato impegno israeliano verso una pace negoziata, che risponda nel miglior modo possibile ai suoi interessi: e questo, nonostante lo scetticismo tanto diffuso fra gli israeliani sulle vere intenzioni della dirigenza palestinese.
Cruciale, poi, per favorire il nuovo congelamento, sarebbe la specifica clausola da parte di Washington che esso non si applicherebbe alle costruzioni nei quartieri ebraici di Gerusalemme (a est come a ovest): che è stato il superfluo focolaio di tante frizioni fra Stati Uniti e Israele degli ultimi mesi.
Il futuro di uno stato ebraico vitale e democratico dipende dal raggiungimento di un compromesso coi palestinesi. Un rinnovato congelamento – con l’amministrazione Usa questa volta, si presume, seriamente intenzionata a garantire la presenza dei palestinesi al tavolo delle trattative di pace, e a scoraggiare con fermezza la via delle avventure unilaterali – è qualcosa che perlomeno riapre uno spiraglio per andare avanti.
Sebbene la questione sia oggetto di controversie fra demografi, quasi tutte le stime indicano che gli ebrei non superano in modo significativo il numero dei non-ebrei nell’area geografica compresa fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, ed è inverosimile che l’equazione tenda a pendere dalla parte degli ebrei nei decenni a venire. La maggior parte dei paesi con un analogo equilibrio demografico sono stati bi-nazionali, oppure si sono frazionati in modo pacifico, o sono precipitati in gravi discordie civili fino a sfociare nella guerra e alla pulizia etnica. Il Belgio, con una popolazione al 60% di fiamminghi e al 30% di valloni, è uno stato bi-nazionale. La Cecoslovacchia (54% di cechi e 31% di slovacchi) dal 1993 si è divisa in due. La Bosnia post-1992 (44% di bosniaci musulmani e 31% di serbi) si è lacerata in una guerra sanguinosa. E in tutti questi paesi le differenze culturali erano assai meno pronunciate di quelle fra ebrei e arabi palestinesi.
Delineare confini sicuri – fra Israele e un autogoverno palestinese che riconosca Israele come stato sovrano del popolo ebraico nel momento in cui assicurerebbe ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione – è la sola soluzione possibile del conflitto.
Certo, Netanyahu non ha ottenuto nulla quando ha accettato il primo e inedito congelamento di dieci mesi, che pure lo aveva costretto a mettere sotto fortissime tensioni la sua coalizione prevalentemente di destra. A quanto pare, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è stato ben lieto di sprecare ben nove di quei dieci mesi, mentre gli Stati Uniti bisticciavano con Israele sul rifiuto del governo israeliano di allargare il congelamento a quartieri di Gerusalemme come Ramat Shlomo, unanimemente considerati parte di Israele anche in un futuro accordo di pace. Ed è particolarmente preoccupante il fatto che il presidente Obama, a differenza del suo predecessore, non abbia mostrato di comprendere “le nuove realtà sul terreno”, né in particolare la richiesta israeliana di conservare alcuni blocchi di insediamenti nel quadro di qualunque futuro accordo di pace. Tuttavia, come ha messo in chiaro Netanyahu, il primo interesse di Israele è perseguire una composizione – se ve n’è una possibile – mettendo fine a un conflitto interminabile. E infatti l’anno scorso ha dichiarato il suo impegno verso la prospettiva a due stati esplicitamente collegata alla rinascita della sovranità ebraica sessantadue anni fa.
Netanyahu è giustamente preoccupato per la possibilità che la Cisgiordania venga trasformata in una seconda “Hamas-stan”. Razzi e missili lanciati dalle colline di Giudea e Samaria sulla “vita sottile” d’Israele, la strettissima fascia centrale del paese, costituirebbero un pericolo per la sua stessa esistenza che non è stato sufficientemente affrontato nelle precedenti proposte di pace. Di qui l’insistenza del primo ministro su qualche forma di controllo militare israeliano lungo il confine con la Giordania.
L’obiettivo degli Stati Uniti sembra essere quello di arrivare a intese sostanziali sulla demarcazione dei confini nell’arco dei tre mesi di rinnovato congelamento: il che sembra un’aspirazione altamente improbabile dato che Abu Mazen non colse nemmeno quell’offerta di pace di Ehud Olmert che ora Netanyahu difficilmente intenderà ampliare o anche solo ripetere tale e quale. Ed è anche altamente problematico questo concentrarsi su alcuni soltanto dei nodi cruciali, quando invece tutti dovranno essere risolti.
Ma con Israele nella scia, di pari passo anziché in attrito con Washington, e guidato per di più da un governo che gode di un consenso popolare relativamente ampio, ora è Abu Mazen che dovrebbe essere messo sotto pressione affinché accetti finalmente un compromesso, e assuma posizioni che diano al suo, e al nostro, popolo l’opportunità di un’autentica riconciliazione e di un futuro sicuro.

(Da: Jerusalem Post, 14.11.19)

Nella foto in alto: Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)

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