Ostacoli alla pace

I paesi arabi non hanno ancora capito che la pace non è un regalo che fanno a Israele, ma a se stessi

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2601Scordatevi gli insediamenti: se il mondo vuole davvero individuare un ostacolo alla pace, farebbe molto meglio a puntare gli occhi sul segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa.
Da quasi diciotto anni, prima per un decennio come ministro degli esteri dell’Egitto, poi negli ultimi otto anni come capo della Lega Araba, Amr Moussa si è energicamente adoperato per avvelenare l’atmosfera in senso anti-israeliano.
Durante gli inebrianti giorni di Oslo, a metà degli anni ’90, fu Moussa che ostruì gli sforzi israeliani volti ad ampliare i legami con il mondo arabo, mettendosi alla testa degli sforzi per impedire che Egitto e altri paesi musulmani firmassero il Trattato di Non Proliferazione se non lo faceva Israele.
Subito dopo lo scoppio della seconda intifada, l’intifada delle stragi suicide, Moussa rilasciò dichiarazioni che contribuirono a gettare benzina sul fuoco delle violenze, anziché cercare di spegnerle. Ad esempio, il 25 ottobre 2000 affermò: “Il processo di pace nella sua forma attuale è finito. Nessun leader arabo o palestinese accetterà di tornare al tavolo negoziale sulla base delle norme precedenti”.
All’inizio di quest’anno, in Algeria, Moussa ha invocato una strategia araba unita per fronteggiare, stando alle sue parole citate da un quotidiano algerino, “la dilapidazione israeliana delle risorse idriche palestinesi, libanesi, siriane e giordane”.
In breve, da anni Moussa è fonte costante di atteggiamenti negativi per questa regione.
Ma questa settimana Moussa ha superato se stesso. Con l’inviato americano George Mitchell che cercava di mettere insieme alcuni gesti di normalizzazione che il mondo arabo potrebbe fare verso Israele nel quadro di un pacchetto per il rilancio del processo diplomatico, Moussa ha fatto quello che poteva per mettergli i bastoni fra le ruote. In una conferenza stampa al Cairo con il leader di Hamas Khaled Mashal, ha minacciato che vi sarebbe stata una dura risposta conto qualunque paese arabo che facesse dei gesti d’apertura verso Israele. “E’ impossibile parlare di normalizzazione quando Israele si rifiuta di fare passi concreti – ha detto Moussa – Nessuno stato arabo offrirà a Israele dei regali su un piatto d’argento”.
Ciò che Moussa evidentemente non ha ancora interiorizzato è che la pace non è un regalo da fare a Israele, ma a tutta la regione. Con tutte le durezze che comporta vivere perpetuamente in stato di guerra, Israele si è comunque sorprendentemente sviluppato, e continuerà a farlo. Lo stesso non si può certo dire dei palestinesi o di quel mondo arabo che Moussa dovrebbe rappresentare.
Passi verso la normalizzazione con sono “regali a Israele su un piatto d’argento”: sono un necessario precursore per la pace. Gli israeliani non si sentiranno abbastanza sicuri tanto da fare ulteriori significative concessioni finché non avranno la precisa sensazione che i loro vicini hanno definitivamente accettato l’esistenza di Israele, che i loro vicini non li considerano più degli appestati. E questa accettazione inizierebbe a manifestarsi sul serio grazie a piccoli gesti concreti come ambasciate, scambi culturali, o la possibilità di volare in Thailandia via Bahrain. Con tutta evidenza Moussa non lo ha ancora capito.
Lunedì scorso sono state nuovamente citate le sue parole secondo cui Israele avrebbe “distrutto” tutto con la decisione di costruire 455 abitazioni negli insediamenti. Fingendo opportunamente di ignorare che quelle licenze edilizie venivano confermate appena prima della prevista dichiarazione da parte del governo israeliano sulla prima moratoria da trent’anni in qua delle attività edilizie negli insediamenti, Moussa ha sostenuto che Israele avrebbe riportato tutto “alla casella di partenza”. Ma se c’è qualcosa che riporta la regione alla casella di partenza, è proprio la retorica di Moussa.
Purtroppo è proprio questa sua retorica anti-israeliana che ne ha fatto, in questi vent’anni, una specie di superstar della politica araba, come dimostra la popolarissima canzone egiziana del 2001 intitolata “Odio Israele (ma adoro Amr Moussa)”.
È un odio contagioso. Domenica il New York Times pubblicava un servizio dal Cairo sul restauro di antichi luoghi ebraici come parte della campagna per la nomina a capo dell’Unesco del controverso ministro della cultura egiziano Farouk Hosni. Un passante di nome Khalid Badr, intervistato sui suoi sentimenti verso gli ebrei, “con la naturalezza con cui avrebbe potuto dire che ore sono” ha risposto: “Li odiamo per tutto ciò che ci hanno fatto”.
È questo concretissimo odio, un odio di cui Moussa è al contempo istigatore e beneficiario, ciò che tiene bloccato il processo di pace alla casella di partenza.

(Da: Jerusalem Post, 9.09.09)

Nella foto in alto: segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa (a sinistra), in compagnia del leader di Hamas Khaled Mashal