Pace dal basso e pace dall’alto

Per costruire la convivenza, gli sforzi sul terreno devono essere accompagnati dalla volontà politica e da una manifesta disponibilità a negoziare un compromesso

Editoriale del Jerusalem Post

Il nuovo centro commerciale a Gush Etzion

L’approccio bottom-up, dal basso verso l’alto, alla soluzione del conflitto israelo-palestinese postula che la pace inizia dalla gente comune. Solo quando israeliani e palestinesi accetteranno l’idea che le loro società sono inesorabilmente legate l’una all’altro, sarà possibile realizzare la pace. Le due società devono rassegnarsi al fatto che condividono la stessa area geografica, che le loro economie sono intrecciate fra loro in modo profondo e complicato, che l’incuria ambientale di un popolo ha conseguenze sull’altro e che israeliani e palestinesi devono imparare a comunicare tra loro per il progresso di entrambi i popoli. In breve, israeliani e palestinesi devono interiorizzare l’idea che le loro relazioni non possono essere ridotte ad un gioco a somma zero in cui una parte deve perdere se l’altro vuole vincere. Al contrario, la crescita e la prosperità di una parte, in ultima analisi, è vantaggiosa anche per l’altra.

Il nuovo centro commerciale inaugurato questa settimana a Gush Etzion (un gruppo di comunità ebraiche a sud-ovest di Gerusalemme fondate nel 1940-’47, distrutte dalla Legione Araba nel ‘48 e ricostruite dopo il ‘67), rivolto sia agli israeliani che ai palestinesi che vivono nella zona, è un ottimo esempio delle potenzialità offerte dall’approccio bottom-up per promuovere un cambiamento positivo. La struttura di 5.000 metri quadri ospita su tre piani quindici negozi, fra cui un outlet di abbigliamento Fox e una rivendita di prodotti per la casa. Dopo la breve cerimonia del taglio del nastro, si potevano vedere donne musulmane in hijab e abiti tradizionali fare shopping insieme a donne ebree religiose con gonne lunghe e foulard sui capelli: la convivenza all’opera.

Un altro centro commerciale in programma per il prossimo anno vicino a Ramallah porta il concetto di coesistenza un passo più avanti: il magnate israeliano dei supermercati Rami Levy sta costruendo il primo centro commerciale israelo-palestinese i cui spazi saranno affittati da proprietari di negozi sia israeliani che palestinesi. Un certo numero di commercianti palestinesi del settore alimentare ha già prenotato un posto nel nuovo centro commerciale, così come hanno fatto dei commercianti israeliani. L’idea di questo centro commerciale, ha spiegato Levy, è venuta dai suoi supermercati che già esistono in Cisgiordania e che sono punti di interazione amichevole tra ebrei e arabi in cerca di lavoro e di prezzi accessibili.

Clienti arabi ed ebrei in un supermercato Rami Levy presso Gush Etzion

Clienti arabi ed ebrei in un supermercato Rami Levy presso Gush Etzion

Le interazioni quotidiane non sono solo inevitabili: sono anche potenzialmente gratificanti e reciprocamente vantaggiose. Se palestinesi e israeliani possono fare affari insieme e interagire quotidianamente in altri modi costruttivi, forse potranno anche collaborare sul piano politico e diplomatico. In una certa misura, il fallito piano dell’ex primo ministro palestinese Salam Fayyad volto a riformare l’Autorità Palestinese – articolato in un documento intitolato “Palestina: fine dell’occupazione, costruzione dello stato” – era costruito sul presupposto che la cooperazione quotidiana con Israele fosse essenziale per la creazione di uno stato palestinese de facto.

Per arrivare alla pace con i palestinesi, tuttavia, gli sforzi “sul terreno” volti a migliorare la cooperazione nei campi del business e delle questioni ambientali devono essere accompagnati da misure diplomatiche. L’approccio bottom-up deve essere integrato da un piano top-down: i centri commerciali e le joint venture devono essere sostenute da leader politici e da accordi diplomatici. Presidenti, ministri e primi ministri israeliani e palestinesi devono attivamente sostenere la pace; devono esaltare l’importanza della riconciliazione e convincere i rispettivi popoli che la pace è un imperativo; devono essere disposti a condurre iniziative diplomatiche sostanziali per risolvere punti di conflitto di antica data. Entrambe le parti devono mostrare disponibilità al compromesso su Gerusalemme, sul problema dei profughi palestinesi, sugli insediamenti, sui confini, sulla cooperazione nella difesa, e mostrare la disponibilità a fare concessioni dolorose. Una serie di successivi governi israeliani ha dimostrato questa buona volontà. Ariel Sharon è uscito dalla striscia di Gaza, Ehud Olmert ha offerto il 98% della Cisgiordania, Benjamin Netanyahu ha congelato la costruzione negli insediamenti. Ma da parte palestinese la risposta a tutti questi sforzi è stata intransigenza e violenze.

L’apertura di nuovi centri commerciali è utile, ma la vera pace necessita di una combinazione di sforzi bottom-up e top-down. I gesti diplomatici restano privi di significato se non sono accompagnati da sostanziali rapporti sociali e di lavoro tra israeliani e palestinesi. Allo stesso tempo, però, il miglioramento dei legami economici non risolverà il conflitto fino a quando i leader politici non prepareranno i loro popoli alla pace, e non negozieranno intese diplomatiche e militari che garantiscano un quadro d’insieme e una direzione di marcia. L’una cosa non funziona senza l’altra.

(Da: Jerusalem Post, 18.8.16)