Palestinesi e israeliani non hanno bisogno di convalide esterne per esercitare (pacificamente) la loro autodeterminazione

Non è la dichiarazione di Trump che fa di Gerusalemme la capitale d’Israele, e non è la dichiarazione di Trump ciò che impedisce ai palestinesi di fare la pace

Di Hen Mazzig

Hen Mazzig, autore di questo articolo

Mentre i mass-media internazionali traboccano di polemiche sulla decisione del presidente degli Stati Uniti di riconoscere quella che è la capitale del mio paese, la reazione qui in Israele è molto più vicina all’indifferenza.

Comprendiamo le implicazioni, e siamo certamente lieti che un leader occidentale abbia detto ciò che già sapevamo essere vero. Ma non ci si aspetti che gli israeliani siano travolti dall’eccitazione ogni volta che l’Occidente dice qualcosa sul nostro paese. Non abbiamo bisogno che siano i leader stranieri a dirci dov’è la nostra capitale. E, francamente, non ne hanno bisogno nemmeno i palestinesi.

Il Medio Oriente è squassato dalle violenze. In Siria mezzo milione di persone sono state uccise nella più sanguinosa guerra civile del secolo. In Egitto gli attacchi terroristici sono diventati la nuova normalità. In Yemen, Iraq, Libia, Sudan, Libano, Iran e persino in Giordania si moltiplicano violenze, lotte intestine e terrorismo. L’elenco delle violazioni dei diritti umani e i casi di oppressione delle minoranze sembrano senza fine. Eppure nessuna dichiarazione dell’Occidente ha avuto alcun impatto concreto sulla realtà della situazione in Medio Oriente. Il che fa sorgere la domanda: perché una semplice dichiarazione del presidente degli Stati Uniti su Gerusalemme riceve così tanta attenzione? Sia il presidente Donald Trump che il suo predecessore Barack Obama in varie occasioni hanno rilasciato dichiarazioni controverse sul Medio Oriente, ma la reazione non è mai stata come quella odierna: non nel mondo arabo, non all’Onu e nemmeno sulla stampa.

I commenti di tutti i grandi mass-media sulla dichiarazione dell’amministrazione Usa sono incentrati quasi interamente su come la decisione di trasferire l’ambasciata, e riconoscere Gerusalemme per quello che è, starebbe “uccidendo il processo di pace”. A me non pare che vi sia nessun processo di pace, tra palestinesi e israeliani, almeno dal 2014 quando la dirigenza palestinese fece saltare i negoziati diretti.

In giallo/ocra, lo stato palestinese che esisterebbe già oggi (con confini definitivi e senza il problema degli insediamenti) se nel 2008 i palestinesi avessero accettato la proposta di Olmert (clicca per ingrandire)

Quali sarebbero i “colloqui di pace” a rischio? Se proprio, il fatto che la dichiarazione di Trump rimette sul tavolo la questione dei colloqui di pace costituisce un passo positivo per il futuro. La maggior parte delle dichiarazioni controverse del presidente Trump scompare dei mass-media dopo un’ondata di news. La dichiarazione su Gerusalemme è invece così grave che starebbe addirittura “distruggendo” tutte le speranze per la pace e un futuro stato palestinese?

La realtà è che i palestinesi non hanno bisogno di Trump né di nessun altro leader straniero per sapere dove vogliono che sia la loro capitale, esattamente come noi israeliani non abbiamo bisogno di una convalida di questo genere. Se i palestinesi vogliono che la loro capitale sia a Gerusalemme (per inciso, cosa perfettamente conforme alla dichiarazione di Trump), non devono fare altro che sedersi al tavolo dei negoziati e discutere una soluzione pacifica. Con Israele. Sfortunatamente l’Autorità Palestinese sta invece usando la dichiarazione di Trump come un’altra ennesima scusa per rifiutare la pace e atteggiarsi a vittima.

La dirigenza palestinese, e la Lega Araba che la sostiene, ha detto no a ogni concreta offerta di pace avanzata da Israele, anche le più generose. Eppure continuano a pretendere di essere le vittime indifese di questo conflitto. Continuano a invocare l’aiuto internazionale come “popolo oppresso” che “ha perduto ogni speranza”. Ma quanto possono essere oppressi, se continuano a rifiutarsi persino di intavolare negoziati di pace? I leader israeliani hanno dichiarato che saranno i primi a riconoscere uno stato indipendente di Palestina appena conclusi i negoziati. Ma i capi palestinesi continuano a rifiutare qualsiasi negoziato di pace accampando una lista senza fine di scuse e precondizioni.

Non si può fare a meno di chiedersi: ma i capi palestinesi, la vogliono davvero una soluzione? Quanto possono essere “disperati” se nel 2008 hanno detto no alla concreta offerta di istituire il loro stato? L’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert offrì un ritiro quasi totale dalla Cisgiordania accompagnato da scambi di territori per un equivalente del 5,8% della Cisgiordania, insieme a un collegamento garantito fra Cisgiordania e striscia di Gaza. I capi palestinesi dissero no. Ancora una volta. C’è da chiedersi: ma lo vogliono davvero uno stato a fianco di Israele?

Dunque, benché le dichiarazioni di Trump siano corrette sia sul piano morale che fattuale, ci scuserete se noi israeliani non abbiamo reagito con l’isteria (positiva o negativa) con cui hanno reagito il mondo arabo, i mass-media e la comunità internazionale. Non è la dichiarazione di Trump che fa di Gerusalemme la nostra capitale, e non è la dichiarazione di Trump ciò che impedisce ai palestinesi di fare la pace. E i capi palestinesi lo sanno benissimo. Ancora una volta vediamo capi musulmani, arabi e palestinesi impegnati a respingere ogni possibile offerta di pace e a incolpare gli altri per il fatto che non possono (o non vogliono) negoziare con Israele.

Così come Israele dichiarò uno stato indipendente nel 1948 con frontiere provvisorie sulla base del piano di spartizione raccomandato delle Nazioni Unite, lo stesso potrebbero benissimo fare i palestinesi, senza bisogno di aspettare grandiose dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti o di chiunque altro. Sarebbe ora che i palestinesi iniziassero ad assumersi la responsabilità per la loro autodeterminazione. Se ci fossero dei negoziati di pace, sarei pronto a riconoscere una Palestina. E lei, presidente Abu Mazen, è pronto?

(Da: Jerusalem Post, 20.12.17)

12 aprile 2017: il rappresentante russo al Consiglio di Sicurezza oppone il veto a una risoluzione di condanna dell’attacco con armi chimiche della settimana precedente in Siria. La Russia aveva già opposto il suo veto (spesso con la Cina) a risoluzioni sulla Siria il 4 ottobre 2011, il 4 febbraio 2012, il 19 luglio 2012, il 22 maggio 2014, l’8 ottobre 2016, il 5 dicembre 2016 e il 28 febbraio 2017

Il veto opposto dagli Stati Uniti, lunedì scorso al Consiglio di Sicurezza, è stato il primo cui ha fatto ricorso Washington dal 2011. Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti hanno usato il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza solo due volte. Nello stesso periodo, la Russia ha opposto il veto a 16 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, principalmente su Siria e Ucraina.
(Da: Jerusalem Post, 20.12.17)

 

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha denunciato lunedì il voto all’Onu come “una perdita di tempo”, ribadendo che “l’unico modo per progredire verso la pace è meditante negoziati diretti fra le parti”. Ha poi aggiunto: “Ogni singolo paese del mondo, ogni singolo stato membro delle Nazioni Unite ha stabilito in modo autonomo e sovrano in quale città ha sede la sua capitale. Solo quando si tratta di Israele questo fondamentale diritto nazionale viene messo in discussione e condannato. È importante ricordare che sotto la sovranità d’Israele Gerusalemme è più libera e aperta alle persone di tutte le religioni di quanto sia mai stata in qualsiasi altro momento della storia. Solo Israele è in grado di garantire che continui a essere così”. Danon ha poi accusato i palestinesi di sabotare i potenziali sforzi di pace: “Siamo sconcertati dall’atteggiamento inquietante mostrato dai palestinesi. Ogni volta che emerge la prospettiva di negoziati significativi, i palestinesi cercano di sabotare questi sforzi. L’amministrazione americana si sta adoperando per rilanciare i negoziati, ma i palestinesi ancora una volta rispondono con la violenza e con i razzi lanciati contro i nostri civili. Voglio essere molto chiaro: quando si tratta di Gerusalemme, non ci faremo intimidire dalla violenza e dalle campagne di odio. I membri del Consiglio di Sicurezza e dell’Onu possono votare anche cento volte contro la nostra presenza a Gerusalemme, ma questo non cambierà la storia. Come sapete – ha concluso Danon – proprio in questi giorni celebriamo la festa di Hanukkà, e ringraziammo per gli auguri che abbiamo ricevuto da un po’ tutto il mondo. Ma alcuni di coloro che ci augurano buona Hanukkà sono gli stessi che mettono in discussione la nostra presenza a Gerusalemme. Vale dunque la pena ricordare che la festa di Hanukkà celebra il fatto che, più di duemila anni fa, dopo che i siro-ellenici avevano cercato di demolire il nostro Tempio, gli ebrei guidati dai Maccabei riuscirono a liberare Gerusalemme. Hanukkà celebra il ritorno della sovranità ebraica nella nostra capitale. Oggi come allora, resisteremo con la massima determinazione di fronte a chiunque tenti di separarci dalla nostra capitale”. (Da: Israel HaYom, 20.12.17)