Partiti arabi israeliani e difesa dello stato ebraico democratico

Il veto ai partiti arabi non c’entra con il razzismo. Ricorda piuttosto la “conventio ad excludendum” dei partiti anti-sistema nella “prima repubblica” in Italia. Ma i sostenitori di Netanyahu devono riflettere attentamente

Di Jonathan S. Tobin

Jonathan S. Tobin, autore di questo articolo

Aggiudicarsi il maggior numero di voti nelle ultime elezioni israeliane è stato un trionfo per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud. Ma non è stato sufficiente per porre fine al lungo periodo di stallo che vede Israele senza una coalizione di governo da più di un anno. I partiti contrari a rinnovare l’incarico a Netanyahu hanno ottenuto 62 seggi, mentre quelli che lo sostengono ne hanno ottenuti 58.

Gli avversari di Netanyahu, a partire dal partito Blu-Bianco guidato da Benny Gantz e Israel Beiteinu guidato da Avigdor Lieberman, hanno infine capito che, sebbene Netanyahu rimanga il leader più popolare del paese e sia a capo del partito con più voti, i suoi avversari hanno potenzialmente la forza per esautorarlo approvando una legge che vieti di conferire l’incaricato di formare un nuovo governo a chiunque sia sotto processo. Questa opzione ha immediatamente suscitato veementi proteste da parte dei sostenitori di Netanyahu che denunciano la possibilità che la Lista (araba) Congiunta – la coalizione di partiti arabi anti-sionisti che ha ottenuto 15 seggi nella 23esima Knesset – garantisca i voti necessari per bandire Netanyahu (che è sotto processo per presunti casi di corruzione, ndr).

Al momento non c’è modo di sapere se quest’eventuale svolta porterà alla nascita di un nuovo governo o alla temuta prospettiva di una quarta tornata elettorale. Tuttavia, alcuni aspetti della controversia meritano d’essere chiariti. Alcuni osservatori stranieri si dichiarano sconcertati dal fatto che i partiti ebraici e sionisti affermano continuamente che non intendono formare una coalizione con la Lista (araba) Congiunta. Alcuni esponenti di estrema sinistra attribuiscono questa posizione a un presunto razzismo anti-arabo. Ma il razzismo non c’entra niente. Il fatto è che coloro che vedono la Lista (araba) Congiunta semplicemente come un partito etnico non colgono per nulla la sua composizione e i suoi obiettivi.

Sostenitori dei partiti arabi israeliani a una manifestazione in occasione della Giornata della Nakba, nella città vecchia di Jaffa (Tel Aviv). Sullo striscione: “Benvenuti in Palestina”

La Lista (araba) Congiunta è in realtà una coalizione di quattro partiti diversi. Il più grande dei quattro è Hadash, il partito comunista israeliano. I suoi obiettivi comprendono non solo l’imposizione di un sistema economico rigorosamente statalista, ma anche la fine dello stato nazionale del popolo ebraico. Le altre tre fazioni condividono l’obiettivo di Hadash di eliminare Israele come stato ebraico, anche se differiscono su altri punti. La Lista Araba Unita è un partito islamista. Vuole sostituire Israele con uno stato islamico sulla falsariga della striscia di Gaza gestita da Hamas. Ta’al, un partito laico, vuole sostituire Israele con uno stato arabo secolare. C’è poi Balad, anch’esso laico, che vuole eliminare Israele e in prospettiva fonderlo con altri paesi vicini in un mega-stato pan-arabo (Balad mira esplicitamente alla creazione di uno stato arabo-palestinese in Cisgiordania e Gaza accanto a uno stato d’Israele che sia bi-nazionale e a maggioranza araba mediante quella che definisce “una giusta soluzione” della questione dei profughi, ndr)

Quindi, per i partiti sionisti affermare che non formeranno un governo con la Lista (araba) Congiunta non ha nulla a che vedere con il pregiudizio etnico. Il nodo è squisitamente politico. Per i partiti sionisti è semplicemente improponibile affidare le sorti del governo a formazioni il cui obiettivo non è tanto affermare una determinata politica economica o estera, quanto abolire le basi stesse dello stato di Israele come stato nazionale del popolo ebraico (in questo senso, il veto verso questi partiti ricorda la conventio ad excludendum dei partiti anti-sistema che era di fatto in vigore in Italia negli anni della cosiddetta “prima repubblica”, ndr). Formare un governo che si reggesse sul sostegno, anche tacito o esterno, di queste formazioni significherebbe mettere la politica del paese alla mercé di un gruppo che non solo osteggia la ragion d’essere dello stato d’Israele, ma si oppone attivamente al suo diritto di difendersi da aggressioni terroristiche e da minacce di stati nemici votati alla cancellazione dello stato ebraico. Non è uno scenario assurdo, giacché potrebbe essere l’unico possibile agli occhi di chi punta innanzitutto a estromettere Netanyahu. Chi si oppone a una potenziale coalizione di governo che fosse in balìa di forze ostili all’esistenza dello stato sionista, esprime una preoccupazione del tutto ragionevole circa il futuro d’Israele. Il razzismo non c’entra nulla.

Detto questo, nel biasimare questa eventualità i sostenitori di Netanyahu devono fare molta attenzione. Lo status di Israele quale unica autentica democrazia in Medio Oriente è un elemento essenziale. Ciò significa, fra l’altro, essere fieri del fatto che tutti i cittadini israeliani, sia ebrei che non ebrei, hanno pieni diritti ai sensi della legge, incluso il diritto di votare ed essere eletti alla Knesset e di ricoprire cariche di governo (infatti non sono mancati ministri e ambasciatori arabi, sebbene non affiliati alla Lista araba Congiunta, ndr). Una cosa è sostenere che Netanyahu gode del sostegno della maggioranza dei voti e dei seggi fra coloro che sostengono i fondamenti dello stato d’Israele, vale a dire senza contare i 15 seggi della Lista (araba) Congiunta. Tutt’altra cosa è invocare, come fanno alcuni sostenitori di Netanyahu, giuramenti di fedeltà e altre misure del genere che di fatto negherebbero ai parlamentari della Lista (araba) Congiunta – e per estensione, al mezzo milione e passa di cittadini che li hanno votati – il loro diritto di esprimersi alla Knesset e di votare contro l’attuale primo ministro.

A ben vedere, proprio chi è convinto che un governo di fatto nelle mani della Lista (araba) Congiunta costituirebbe una minaccia esistenziale per Israele, dovrebbe chiedersi se vale la pena rischiare un tale scenario solo per impuntarsi sulla figura di Netanyahu. Può ben darsi che in questo periodo storico Netanyahu sia effettivamente lo statista più valido d’Israele e che sostituirlo con una persona meno esperta sia un rischio. Ma tutti sanno che potrebbe essere facilmente varato un governo d’unità nazionale formato dai partiti sionisti se Netanyahu si facesse da parte. Anzi, senza Netanyahu probabilmente il Likud potrebbe riportare sulla destra alcuni suoi ex alleati come la formazione Telem di Moshe Ya’alon, oggi aggregata a Blu-Bianco, o il partito Israel Beiteinu di Lieberman. Nel frattempo, Netanyahu potrebbe concentrarsi nel perseguire la sua assoluzione in tribunale e, se assolto, avrebbe buone probabilità di tornare al potere nelle successive elezioni.

Non ci sono opzioni né ottime né facili per risolvere lo stallo politico israeliano. Data l’immensa popolarità di Netanyahu fra gli elettori del Likud, è improbabile che il partito lo metta da parte. Ma la sua permanenza in carica vale davvero il rischio di minare la democrazia israeliana, da una parte, o varare un governo in balìa dei partiti (arabi) “anti-sistema” dall’altra? Questa è la domanda su cui sia il primo ministro che i suoi sostenitori dovrebbero riflettere a lungo.

(Da: jns.org, 6.3.20)