Perché è importante il messaggio contro l’annessione pubblicato in Israele dagli Emirati Arabi Uniti

Lo storico editoriale sul maggiore quotidiano ebraico pone al centro la questione dei rapporti fra Gerusalemme e paesi arabi e dei sistemi di alleanze in Medio Oriente

Di Seth J. Frantzman

Seth J. Frantzman, autore di questo articolo

Gli israeliani hanno visto, venerdì mattina, la possibile alba di una nuova era grazie a un editoriale pubblicato su un quotidiano ebraico con il quale l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington avverte che la prevista annessione israeliana di alcune porzioni della Cisgiordania potrebbe “far naufragare l’aspirazione d’Israele a migliorare i rapporti di sicurezza, economici e culturali con il mondo arabo e con gli Emirati Arabi Uniti”. Il messaggio era intitolato “Annessione o normalizzazione”. Si tratta di un monito senza precedenti che proviene da un paese che non ha rapporti ufficiali con Israele, ma col quale le relazioni sembrano offrire potenzialità senza eguali.

L’editoriale si presta a diverse importanti considerazioni. Vediamone cinque fra le più notevoli.

Il monito viene dall’ambasciatore negli Stati Uniti. L’editoriale è firmato dall’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati Uniti, Yousef Al Otaiba . È stato poi twittato, in ebraico, dalla Direttrice delle comunicazioni strategiche per gli Emirati Arabi Uniti, Hend al-Otaiba. Il fatto è importante perché Otaiba era anche presente, a gennaio, all’annuncio ufficiale del piano Trump nella East Room della Casa Bianca. Sempre a gennaio, aveva anche rilasciato una dichiarazione in cui esprimeva apprezzamento per lo sforzo del presidente americano Donald Trump di arrivare a un accordo di pace e affermava che tutte le parti interessate dovrebbero raggiungere un accordo per poter andare avanti.

Nel suo tweet in ebraico, Hend al-Otaiba ha sottolineato che gli Emirati Arabi Uniti e il mondo arabo vedono oggi un’opportunità, ma che l’annessione sarebbe un segnale negativo e potrebbe dilapidare l’enorme potenzialità di rapporti migliori. E’ del tutto evidente che questo messaggio, che giunge dagli Emirati Arabi Uniti tramite il suo importante ambasciatore a Washington, è un messaggio molto serio. Fatto arrivare con un testo in ebraico e una dichiarazione video in inglese, è molto più di un semplice commento o di un’opinione da parte di qualcuno ad Abu Dhabi. Già a maggio, gli Emirati Arabi Uniti avevano fatto circolare opinioni, quindi questo follow-up ha lo scopo di potenziare il messaggio e, soprattutto, farlo arrivare direttamente ai destinatari.

L’editoriale dell’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati Uniti, Yousef Al Otaiba, su Yedioth Ahronoth

Nel complesso, i toni dell’editoriale non sono eccessivamente duri. Sembrano più l’avvertimento di un collega che non quello di un nemico. Sono toni moderati, senza minacce. Il che è importante, perché lascia un certo margine di manovra nel contesto delle discussioni su annessione e “normalizzazione”. L’editoriale non sembra porre degli ultimatum o degli aut-aut. Sembra piuttosto un rimbrotto smorzato, nelle forme tipiche della politica del Golfo. Il che potrebbe indicare che l’annessione (secondo modalità e tempi da valutare) potrebbe non far deragliare totalmente i rapporti fin qui costruiti.

Su Yediot, non su Israel HaYom. Il messaggio è stato recapitato tramite Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano ebraico d’Israele, allo scopo di avere il massimo effetto rivolgendosi al grosso dell’opinione pubblica israeliana. Non si conoscono tutti i dettagli su come è nato l’editoriale, ma senza dubbio la scelta della testata su cui pubblicare una cosa del genere è stata oggetto di attenta analisi. Già il fatto di pubblicare un articolo in ebraico costituisce un grande passo avanti, giacché l’ambasciatore avrebbe potuto benissimo pubblicare in inglese su qualche autorevole giornale americano. L’articolo avrebbe recapitato il messaggio a Washington e sarebbe stato senz’altro letto anche a Gerusalemme. Rivolgersi direttamente al grande pubblico israeliano è stata una scelta forte. Non basta. E’ anche importante il fatto che l’articolo, in ebraico, non è stato pubblicato su Haaretz o su Israel HaYom. Il che significa che non si stava rivolgendo un appello alla sinistra israeliana, in gran parte critica nei confronti delle politiche del governo d’Israele, ma nemmeno ai lettori di Israel HaYom, un giornale largamente percepito come molto vicino a Benjamin Netanyahu. Ciò potrebbe significare che l’appello si rivolge soprattutto all’elettorato di Benny Gantz, già oppositore ed ora partner di Netanyahu nell’attuale coalizione. Il che può anche essere visto come un messaggio a Netanyahu per offrirgli una via d’uscita rispetto alla strada imboccata verso l’annessione, giacché Netanyahu è da tempo un aperto sostenitore delle relazioni d’Israele con l’estero, e in particolare coi paesi arabi “moderati”. Ma  ciò che conta soprattutto è che l’editoriale appare rivolto al più vasto pubblico ebraico possibile, nella consapevolezza che poi sarebbe stato ricevuto anche in inglese.

Il video messaggio di Otaiba che ha accompagnato l’editoriale è in inglese e ha messo in guardia sul fatto che i progressi fatti potrebbero essere compromessi da un solo passo, quello dell’annessione. Ci sono opportunità che potrebbero concretizzarsi “nei prossimi anni”, ha detto Otaiba, ma ha avvertito che l’annessione potrebbe costituire una battuta d’arresto per tutti quegli israeliani che aspirano a stabilire rapporti con nuovi paesi arabi. Ha anche detto che l’idea dell’annessione è stata lanciata sulla base di “ristretti interessi interni”, e che si dovrebbe pensare di più a ciò che potrebbe accadere in un contesto più ampio. Ha detto che è importante che tutto questo rientri nel dibattito “con il pubblico israeliano”. Con questo duplice ricorso ai mass-media in ebraico e in inglese, è stato inviato un chiaro messaggio.

Due voli degli Emirati Arabi Uniti con aiuti umanitari sono atterrati in Israele. Nelle scorse settimane sono arrivati direttamente in Israele due voli degli Emirati Arabi Uniti carichi di aiuti umanitari: un fatto senza precedenti, che si è verificato nel mezzo della crisi da covid-19. Il primo volo è stato effettuato il 20 maggio. Non è stato coordinato con l’Autorità Palestinese e ha bypassato lo spazio aereo giordano, suscitando interrogativi sulle controversie che avrebbe potuto causare e sul tentativo di Abu Dhabi di evitare polemiche. Il 9 giugno è arrivato un secondo volo, questa volta con il logo della compagnia Etihad e la bandiera degli Emirati Arabi Uniti: un simbolo importante e, a giudicare dalle reazioni, non ci sono state molte polemiche. È importante osservare che, nel complesso, i passi verso Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti appaiono come un graduale crescendo. Ad esempio, a dicembre lo sceicco Abdullah bin Zayed Al-Nahyan, ministro emeratino per affari esteri e cooperazione internazionale, aveva twittato ai suoi 4,6 milioni di follower un articolo di Ed Husain intitolato “Riforma dell’islam: sta prendendo forma in Medio Oriente un’alleanza arabo-israeliana “. L’editoriale e il video messaggio dell’ambasciatore sembrano suggerire che questi progressi sono in pericolo.

Il tweet in ebraico di Hend Al Otaiba, direttrice delle comunicazioni strategiche presso il Ministero degli esteri degli Emirati Arabi Uniti

Il resto del Golfo. Nel giugno 2019 il Bahrain ha ospitato un seminario concepito come parte del piano dell’amministrazione Trump. Il meeting servì per illustrare il pacchetto economico messo a disposizione dei palestinesi come parte del cosiddetto “accordo del secolo”. Il Bahrein è stato violentemente criticato dall’Iran e da altri per aver ospitato l’incontro. Ma in linea generale, il Bahrein nel corso degli ultimi anni ha fatto da ballon d’essai circa alcune posizioni su Israele. Il fatto che l’editoriale della scorsa settimana provenga dagli Emirati Arabi Uniti rappresenta una specie di escalation. La cosa è rilevante perché Riad, Abu Dhabi e Bahrein collaborano strettamente su varie questioni politiche. Per esempio, hanno collaborato nella rottura con il Qatar. E a differenza della monarchia del Kuwait, sembrano aver ammorbidito la loro posizione su Israele. Il Kuwait è molto più ostile. Inoltre, a differenza della Giordania, non usano il linguaggio delle minacce circa l’eventuale progetto di annessione. Per capire in che modo il Golfo è coinvolto nella discussione delle questioni israeliane, vale la pena ricordare che nell’ottobre 2018 Netanyahu si recò in Oman per una visita a sorpresa. L’Oman ha anche suggerito relazioni più positive con Israele nelle successive riunioni a Manama e in Giordania. Ma nel complesso la politica dell’Oman non è così chiara, giacché ha anche ospitato delegazioni iraniane e sembra considerare se stesso una sorta di potenza neutrale nella regione. Dal 2018 si sono susseguiti passi senza precedenti con Netanyahu in Ciad nel gennaio 2019 e colloqui con il Sudan nel febbraio 2020. Oman, Ciad, Bahrain, Sudan: ecco una mappa delle relazioni in via di disgelo con Israele dal 2018. In questo contesto, il messaggio degli Emirati Arabi Uniti è importante. Da non dimenticare che arriva anche a seguito di un intervento a maggio del capo del Congresso Ebraico Mondiale, Ron Lauder, su Arab News, in Arabia Saudita.

Le implicazioni regionali. E’ evidente il crescendo di avvertimenti che giungono a Israele sull’ipotesi di annessione. In particolare sono arrivati dalla Giordania e dall’Egitto, ma nelle ultime settimane anche dalla Russia. La maggior parte dei paesi si sente in dovere di dire qualcosa, ma la domanda è: quanti sono seriamente determinati nella loro opposizione e quanti stanno solo aggiungendo la propria voce al coro? In Medio Oriente non mancano crisi molto gravi: la parziale annessione potrebbe gettare altra benzina sul fuoco oppure potrebbe essere vista solo come problema fra i tanti. Basti ricordare che Libano e Siria sono nel pieno di un disastro economico, l’Isis sta rialzando la tesa in Iraq mentre gli Stati Uniti intendono ritirare alcune forze, l’Iran alimenta tensioni e traffici d’armi in Yemen, Iraq, Libano e Siria, e la Turchia sta inviando droni e forze armate in Libia. La mancata opposizione all’annessione potrebbe essere quella della Turchia, assai occupata nei conflitti a Idlib in Siria e in Libia, ma Ankara potrebbe invece accrescere la sua opposizione proprio per incendiare la regione. La Turchia sostiene Hamas a Gaza ed è uno dei maggiori nemici implacabili d’Israele. In questo contesto, gli avvertimenti e i messaggi degli Emirati Arabi Uniti su interessi o minacce condivisi potrebbero sottintendere importanti implicazioni in relazione alle alleanze regionali odierne in Medio Oriente. La Turchia e il Qatar si contrappongono alla rete di alleanze fra Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto e Bahrein. Anche l’Iran e il suo intervento in Libano-Siria-Yemen contrastano il complesso guidato dai sauditi. Questo significa che l’Iran e la Turchia potrebbero coordinare fra loro l’opposizione al progetto d’annessione di Israele.

Il messaggio implicito degli Emirati Arabi Uniti potrebbe essere che Israele e il Golfo hanno bisogno l’uno dell’altro e che sono necessarie relazioni in crescita, evitando docce fredde. Il messaggio potrebbe essere che Israele non può avere migliori relazioni e al contempo sottovalutare la questione palestinese ridisegnando le linee dello status quo. Israele è disposto a rischiare la sua posizione attualmente forte in Medio Oriente andando avanti con il progetto d’annessione? Ecco quella che appare come la domanda-cardine in questo momento.

Da parecchi anni ormai la regione non ruota attorno agli sviluppi del conflitto israelo-palestinese. Ciò è dovuto all’insorgere di questioni regionali ben più vaste come l’ascesa dell’Iran, l’Isis, l’instabilità e le guerre civili. L’annessione potrebbe sortire l’effetto di riportare al centro la questione israelo-palestinese. Questo è il vero punto interrogativo regionale che incombe sul progetto, e che è stato sollevato dallo storico editoriale.

(Da: Jerusalem Post, 14.6.20)