Perché ha ragione Netanyahu ad accettare il cessate il fuoco

Tredici anni di dittatura terroristica a Gaza (giustificata e tollerata dal resto del mondo) hanno messo Israele in una situazione senza altra possibilità che “contenere” lo staterello criminale di Hamas

Jonathan S. Tobin

Scrive Jonathan S. Tobin: Molti israeliani protestano nelle strade di Sderot, e chi potrebbe biasimarli? Hanno trascorso giorni interi a correre da un rifugio all’altro sotto centinaia di razzi sparati da Gaza contro la loro città, e sul resto del sud di Israele, dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica. La loro reazione alla notizia di un cessate il fuoco tra Israele e i suoi nemici non è stata di gioia e sollievo. Sono furibondi che, ancora una volta, Hamas avesse potuto terrorizzare e tenere in ostaggio centinaia di migliaia di israeliani cavandosela a buon prezzo. Più precisamente, accusano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di aver abbandonato loro e il Paese rifiutandosi di rispondere con maggior forza ai 460 razzi lanciati sul sud di Israele in poco più di 24 ore. L’impulso a dire basta una volte per tutte allo stato terrorista di Gaza è quasi irresistibile. Finché Hamas controlla lo staterello palestinese di Gaza, ci sarà sempre un pugnale puntato alla gola d’Israele. Anche nel momento in cui accetta un cessare il fuoco e parla di un possibile accordo con Israele, Hamas non è per nulla interessata alla pace. Il suo obiettivo, sanguinosamente confermato dalle violenze di massa ai confini con Israele chiamate “marce del ritorno”, è e rimane la cancellazione dello stato ebraico. Una pace definitiva con Hamas è semplicemente impossibile.

Perché allora Netanyahu non cerca una resa dei conti definitiva, anziché costringere gli israeliani a sopportare altre ondate di attacchi come quest’ultima, e le periodiche campagne di contrattacco che Israele ha dovuto lanciare nel 2009, 2012 e 2014 e che si fermano sempre prima di destituire Hamas? Sebbene venga regolarmente etichettato come un “guerrafondaio nemico della pace”, quando si tratta di fare ricorso alla forza militare Netanyahu si è sempre dimostrato uno dei primi ministri più cauti che Israele abbia mai avuto. Le ragioni sono in parte personali e in parte strategiche.

Una foto di Benjamin Netanyahu quando era capitano nelle forze d’élite Sayeret Matkal

Come suo fratello Yonatan, l’eroe caduto nell’operazione di salvataggio degli ostaggi a Entebbe nel 1976, da giovane Netanyahu prestò servizio in un’unità militare d’élite, spesso mandata a svolgere compiti difficili e pericolosi. Egli conosce molto bene il costo degli scontri militari, e da politico ha ordinato alle truppe di combattere solo dopo aver esaurito ogni possibile alternativa. In effetti, oltre alla sua indubbia padronanza della situazione diplomatica e militare di Israele, il fatto che faccia ricorso alla risorsa più preziosa di Israele – la vita dei suoi soldati – solo con grande riluttanza non è l’ultimo dei motivi per cui continua a riscuotere la fiducia di gran parte degli israeliani.

Netanyahu, inoltre, non crede che l’invio dell’esercito a Gaza sarebbe nell’interesse di Israele. Sa che infliggere a Hamas un colpo da knock-out potrebbe rendere la situazione ancora più difficile per la popolazione israeliana. Le realtà di fatto è che Israele si trova in una situazione senza vie d’uscita rispetto a Gaza, e la cosa va fatta risalire alla decisione del 2005 dell’allora primo ministro Ariel Sharon di ritirare dalla striscia tutti gli israeliani, civili e militari. Sharon prometteva che se Gaza fosse diventata una base per il terrorismo, Israele avrebbe contrattaccato e l’avrebbe rioccupata (e ovviamente la comunità internazionale avrebbe sostenuto le sue ragioni, aggiungevano molti in quei giorni). E’ toccato ai successori di Sharon rendersi conto che quella promessa era molto più facile a dirsi che a farsi. Il prezzo di una tale campagna sarebbe proibitivo in termini di vittime israeliane, e catastrofico se si considera quanti palestinesi verrebbero sacrificati da Hamas come scudi umani. E verrebbero rivolte contro Israele tutta l’indignazione e le condanne di una comunità internazionale ipocrita, che considera lo stato ebraico come l’unico sul pianeta che non ha il diritto di difendersi. E poi, qualunque sforzo militare, anche di successo, lascerebbe irrisolta la questione del governo di Gaza. Mantenere un’occupazione a lungo comporterebbe prezzi molto alti, così come sarebbe alto il prezzo del tentativo di insediarvi il governo dell’Autorità Palestinese. E’ vero che i capi dell’Autorità Palestinese non desiderano altro che riottenere il controllo su Gaza, ma sono disposti a farlo solo combattendo “fino all’ultimo israeliano”.

Netanyahu si rende conto che, per quanto cattivo sia, l’attuale status quo – sia rispetto a Gaza che alla Cisgiordania – è migliore delle alternative disponibili. E così, anziché venire incontro alla sua gente che reclama una soluzione energica del problema-Gaza, il primo ministro si muove su una prospettiva di più lungo respiro. Sa che la strategia più intelligente è tenersi sempre pronti e aspettare – per quanto lunga possa essere l’attesa – che i palestinesi abbandonino finalmente la loro secolare guerra (e illusione) per l’annientamento del sionismo.
(Da: jns.org, 14.11.18)

Ugo Volli

Scrive Ugo Volli: Gli abitanti delle comunità intorno a Gaza hanno protestato, e giustamente perché la loro vita è spesso  resa difficilissima dagli attacchi missilistici e dai palloni molotov dei terroristi. Meno giustamente l’opposizione di sinistra (che rivendica l’eredità dei governi che hanno sgomberato da Gaza) ha attaccato il governo come incapace di difendere il paese. Ma questo sta nella dialettica democratica e saranno gli elettori a decidere chi ha ragione. All’estero, e anche in Italia, ci sono stati alcuni generali da salotto che senza alcun diritto politico o morale, e soprattutto senza alcuna competenza, hanno predicato l’occupazione di Gaza o la sua “distruzione”, dando dell’imbelle a Netanyahu. In realtà il problema di Gaza non è risolvibile, può solo essere delimitato. Cerchiamo di guardare le cose dal punto di vista freddo di chi deve prendere le decisioni per Israele. A Gaza vi è un milione e mezzo di persone che non c’è modo di fare magicamente scomparire. Buona parte di loro appoggia i terroristi, che sono forti di parecchie decine di migliaia di uomini armati e hanno usato tutte le loro risorse per preparare tunnel e bunker di difesa, fortemente minati. Questi e i loro centri comando, le loro fabbriche e  i loro depositi di armi, sono accuratamente sistemati vicino o sotto case d’abitazione, ospedali, scuole. Naturalmente non è possibile, per ragioni etiche e anche politiche, pensare di “spianare la striscia” con bombardamenti, come scrivono alcuni stupidi o provocatori. Né Hiroshima né Dresda possono essere esempi per l’esercito israeliano. Chi fosse così pazzo da tentarlo, provocherebbe la distruzione morale e probabilmente anche politica di Israele.

L’esercito israeliano potrebbe battere sul terreno quest’incubo militare, ma a prezzo di molte decine o centinaia di morti suoi, e di migliaia o decine di migliaia di morti arabi, in buona parte civili. Ci sarebbe un prezzo politico altissimo da pagare, non solo sulle piazze occidentali ma anche nelle relazioni fondamentali che Israele sta costruendo con gli stati arabi contro l’Iran, che è il vero nemico pericoloso. Questa è la ragione per cui l’Iran sta finanziando Hamas: esattamente per risucchiare Israele in un’operazione del genere.

Terroristi della Jihad Islamica palestinese, a Gaza

Una volta conquistata Gaza, bisognerebbe decidere che farne. Tenerla occupata, senza avere eliminato tutti i terroristi fino all’ultimo (il che è impossibile), ci sarebbe un’emorragia continua di morti e feriti nell’esercito, a causa di attentati. Inoltre dovrebbero stare qui truppe che servono a difendere il nord, richiedendo richiami massicci di riservisti, con i problemi conseguenti. Lasciarla vorrebbe dire restituirla a Hamas, che ha radici profonde nella striscia e quadri anche all’estero; o darla alla Jihad Islamica, che è espressione diretta dell’Iran, o consegnarla a Fatah, cioè ad Abu Mazen, ammesso che volesse e sapesse tenerla. Ma non bisogna farsi illusioni, il suo movimento non ha meno propensione al terrorismo di Hamas. Più probabilmente ne uscirebbe una specie di anarchia, in cui le bande terroriste competerebbero fra loro sulla capacità di infliggere danni a Israele.

Si potrebbe infine fare un’operazione limitata come le precedenti, l’ingresso per qualche chilometro nel territorio di Gaza, con distruzione di risorse e organizzazione terroriste. Ma il risultato sarebbe solo provvisorio, come nei casi precedenti. Al prezzo di qualche decina di morti fra i soldati israeliani e di qualche centinaia o migliaia di terroristi (ma anche di civili), e di costi politici notevoli, si restaurerebbe per un po’ di tempo la calma. Purtroppo se c’è una cosa che a Hamas non manca sono i ricambi militari, dato il lavaggio del cervello che ha inflitto alla popolazione. Le perdite, come è accaduto in passato, sarebbero presto rimpiazzate.

Guardiamo ora l’altro piatto della bilancia, sempre con la lucidità e la freddezza che occorre in questi casi. Hamas ha usato 500 missili in un paio di giorni, ottenendo un morto e qualche ferito. Di fatto non ha danneggiato Israele se non nel morale degli abitanti vicino alla striscia, costretti a subire un logorante bombardamento nei rifugi. Ma sul piano militare non è accaduto nulla di significativo. Anzi, si è dimostrata con chiarezza l’impotenza del terrorismo dei missili. Hamas avrebbe potuto continuare per una settimana o un mese senza fare davvero male allo stato ebraico. Anche il tentativo di concentrare nel tempo e nello spazio il bombardamento non ha avuto esiti: ci sono stati 80 missili lanciati in un’ora su un territorio limitato, e “Cupola di ferro” ha retto. Si può dire che questa occasione abbia dimostrato che l’arma dei razzi, almeno di quelli a corto raggio di Hamas, è spuntata. (Per quelli molto più sofisticati di Hezbollah e dell’Iran il discorso potrebbe essere diverso.) Come del resto non sono decisivi i loro tunnel e gli assalti in massa alla frontiera. Hamas è nell’angolo, può gridare vittoria quanto vuole: sul piano militare, come su quello politico, è perdente.

In nome della “deterrenza” bisognava fare un’operazione di rappresaglia e entrare a Gaza, come Hamas ha in sostanza invitato a fare? No, era una trappola. Così ha valutato l’esercito israeliano e così hanno deciso il gabinetto di guerra e Netanyahu. Israele è interessato alla calma, non vuole avere perdite inutili, non vuole offrire il fianco alla propaganda antisemita, sa che la guerra vera è quella del nord, con Iran, Hezbollah, Siria (e dietro, almeno in parte, la Russia). Ha scelto una linea razionale, non emotiva. Non si è fatto tentare dalla logica di “punire” Hamas per le sue provocazioni, ma ha badato al calcolo dei propri interessi. Non ha consentito che si lacerasse la trama del dialogo con i paesi sunniti. Non ha dato armi propagandistiche ai boicottatori. Non ha mostrato debolezza, ma lucidità.
(Da: progettodreyfus.com, 14.11.18)

Justin Amler

Scrive Justin Amler: L’Onu – un’organizzazione ipocrita ed eticamente defunta, che pensa di poter dare lezioni morali a tutti – ha detto che una nuova guerra a Gaza sarebbe stata una “tragedia inimmaginabile”. Proprio così: “una tragedia inimmaginabile”. E ancora una volta ha sbagliato su quale sia esattamente la tragedia. Giacché la vera tragedia è ciò che sta avvenendo a Gaza da 13 anni.

Nel 2005 Israele lasciò Gaza sgomberando tutti i soldati e tutti i civili, sradicando persone e famiglie che vi abitavano e lavoravano da una vita. Andandosene, Israele lasciò nella striscia di Gaza un bel patrimonio di impianti che avrebbe potuto dare agli arabi del posto la possibilità di fare qualcosa di buono della loro vita. Israele offrì loro la possibilità di costituire un’entità largamente indipendente, e la possibilità di disegnare il proprio destino. Israele lasciò loro varie strutture, a cominciare da imprese di successo d’agricoltura in serra, con colture già avviate all’esportazione. Ma invece di cogliere l’occasione d’oro che gli si offriva – l’occasione di esercitare un’autodeterminazione che nessuno dei “fratelli arabi” aveva mai offerto loro – essi decisero di non coglierla. Invece di lavorare nelle serre, le saccheggiarono. Portarono via tutto: tubi di irrigazione, pompe per l’acqua, coperture in plastica. Invece di abitare nelle case degli ex-insediamenti ebraici, le depredarono. I denari e i materiali che vennero generosamente riversarti nella striscia di Gaza, e che erano destinati ad aiutare i residenti arabi a diventare un modello di successo per il supposto sogno arabo di un ulteriore stato arabo indipendente, finirono invece per finanziare un incubo. Nei 13 anni da quando Israele se n’è andato, tutti gli sforzi degli arabi a Gaza, sotto la dittatura criminal-terroristica che vi prese il potere, non hanno mai riguardato il futuro, non sono mai stati dedicati a costruire una vita migliore, non sono mai stati centrati sull’aiutare la propria gente. Non hanno mai riguardato lo sforzo di creare un futuro di speranza, opportunità, aspirazioni.

Serre israeliane nella striscia di Gaza prima del ritiro del 2005

È stato esattamente il contrario. La struttura di speranza che si sarebbe dovuta costruire venne sostituita con la struttura dell’odio. Le menti dei migliori ingegneri, anziché essere focalizzate sulla costruzione di vitali infrastrutture civili come centrali idriche ed elettriche, sono state cinicamente indirizzate alla costruzione di razzi e gallerie, tutte progettate al solo scopo di seminare le morte su uomini, donne e bambini. Hanno costruito esclusivamente per uccidere.

La tragedia non è se arriva una guerra, perché  la guerra c’è già: quella di Gaza contro se stessa. La tragedia è che i miliardi di dollari che gli arabi di Gaza hanno ricevuto, tutto il sostegno e le speranze e la volontà di gran parte del mondo di vedere il loro successo, sono stati sperperati: non da una cattiva gestione, bensì dal deliberato obiettivo nazionale di puntare tutto sulla distruzione dell’unico stato ebraico sulla Terra. Quanti ospedali, quante scuole e università avrebbero potuto essere costruiti? Quanti centri di eccellenza della scienza e dello sviluppo avrebbero potuto fiorire? Quante opportunità si sarebbero potute offrire e quanti sogni si sarebbero potuti realizzare? Ma nulla di tutto questo si avvererà perché per quei capi arabi, il futuro non è determinato su ciò che possono costruire, ma solo da ciò che possono distruggere.

Serre israeliane nella striscia di Gaza dopo il ritiro del 2005

Nel frattempo, i razzi hanno continuato a cadere su persone innocenti nelle comunità meridionali d’Israele, e si è continuato a scavare tunnel per infiltrare terroristi sotto alle case dove dormono i bambini. Bambini cresciuti con l’idea che sia normale avere pochi secondi per correre nei rifugi, sapendo che quei pochi secondi possono fare la differenza tra la vita e la morte. Ecco la vera tragedia. La guerra non è una “tragedia inimmaginabile”, come sembrano pensare le Nazioni Unite. La guerra è il risultato ovvio e inevitabile quando a un’entità terrorista viene permesso di svilupparsi senza ammonimenti né conseguenze. Dov’era la comunità internazionale in tutti questi ultimi 13 anni? Dove sono le condanne di ciò che stavano facendo i capi di Hamas? Del modo in cui nascondevano i razzi sotto le scuole finanziate dai paesi donatori, del modo in cui hanno usato intenzionalmente e cinicamente i civili come carne da macello alla barriera di confine con Israele, del modo in cui hanno minacciato e intimidito persino la stampa e il personale delle Nazioni Unite? Dove sono gli appelli del Segretario Generale dell’Onu alla “moderazione” quando quelli costruivano i loro tunnel del terrore, giorno dopo giorno e notte dopo notte? E dov’erano responsabilità e controlli quando i fondi della comunità internazionale destinati alla ricostruzione diventavano investimenti di morte impiegati per la distruzione? Le cose non cambieranno fino a quando intere generazioni non saranno educate alla pace anziché indottrinate alla guerra; finché nessuno sarà mai chiamato a subire conseguenze per la costruzione di strutture terroristiche.

Nessuna persona razionale vuole la guerra, ma qui non abbiamo a che fare con persone razionali. Abbiamo a che fare con un’organizzazione terroristica spietata che non si fermerà, indipendentemente da quanto si cerchi di blandirla, indipendentemente da quanti soldi le si daranno. La mia gente è sotto attacco da parte di forze oscurantiste che non possono essere placate e con cui non è possibile ragionare. Egiziani e altri attori internazionali si adoperano furiosamente per una tregua di lungo periodo, ma non ci può essere una tregua di lungo periodo con il male, perché il male aspetta solo nell’ombra per ricominciare. La vera tragedia è che si siano lasciate arrivare le cose a questo punto.
(Da: jns.org, 13.11.18)

Efraim Inbar

“Non possiamo fidarci di Hamas per mantenere la calma – dice a Israel HaYom Efraim Inbar, presidente del Jerusalem Institute for Strategic Studies – Solo quando Hamas teme le ritorsioni delle Forze di Difesa israeliane, cosa che in questo momento non avviene, prevale la calma. Molti tendono a trascurare il fatto che in Medio Oriente è la paura, sopra ogni altra cosa, ciò che detta il modo in cui le persone agiscono. Purtroppo, di tanto in tanto siamo costretti far pervenire ai nostri nemici un promemoria piuttosto violento, affinché non insistano col terrorismo. Il fatto stesso che Hamas continui con le sue azioni senza sosta dimostra la mancanza, in questo momento, della necessaria deterrenza, senza la quale nessuna tregua vale la carta su cui è scritta. Aspettarsi che Hamas onori gli accordi con lo stato ebraico, che essa vuole annientare, è da ingenui in modo imperdonabile. E cedere all’estorsione prelude solo a ulteriori estorsioni. L’ipotesi che un miglioramento della qualità della vita per gli abitanti di Gaza riduca la violenza e l’odio di Hamas verso Israele è fondamentalmente sbagliata. In nessun posto al mondo si è mai dimostrata una correlazione diretta tra qualità della vita e tasso di terrorismo. Neanche nel caso palestinese”.

Jonathan Schanzer

La domanda che rimane è: alla fine dei conti, cosa può fare Israele con Hamas?

Forse non c’è nulla che Israele possa veramente fare, sia che impieghi una pesante forza militare, sia che per il momento scelga semplicemente di non fare nulla. Dice a JNS Jonathan Schanzer, vicepresidente della Foundation for Defense of Democracies: “Tutto quello che funziona normalmente, non funziona necessariamente nella striscia di Gaza. È una specie di polveriera. E fra le autorità israeliane c’è una sorta di sfinimento, con Gaza. Hanno provato di tutto: forza schiacciante, trattative, collaborazione con l’Egitto, ricorso a mezzi non convenzionali per fornire aiuti. Nulla di tutto questo funziona. Aleggia la rassegnazione all’idea che Gaza sia un dannato problema semplicemente irrisolvibile”.
(Da: jns.org, 14.11.18)