Perché i palestinesi non possono firmare un accordo che ponga veramente fine al conflitto

Ciò che non vogliono capire i mediatori occidentali è che i palestinesi non possono firmare qualunque accordo che ponga fine alle loro rivendicazioni e riconosca il diritto ad esistere di uno stato ebraico

Di Eric R. Mandel

Eric R. Mandel, autore di questo articolo

A sentire gli abituali negoziatori di pace internazionali, tutti conoscono la ricetta per risolvere il conflitto israelo-palestinese e sanno esattamente ciò che ciascuna parte deve concedere per arrivare a un accordo finale. Secondo loro, tutto ciò che serve è che Israele si ritiri sulle linee del 1967 con piccoli aggiustamenti e Gerusalemme est come capitale del nuovo stato palestinese. Se solo Israele facesse questo, trionferebbe la pace.

Ma questi stessi diplomatici devono poi arrampicarsi sui vetri per giustificare l’intransigenza palestinese e cercare di spiegare il fatto che tutte quelle concessioni sono state già offerte all’Autorità Palestinese nel 2001 e nel 2008, e sono state respinte. Nel 2008 gli israeliani offrirono il 94% della Cisgiordania (Giudea e Samaria) con scambi di territori per compensare il rimanente 6%, e Gerusalemme est come capitale di uno stato palestinese. Israele concedeva persino la rinuncia alla sovranità esclusiva su Monte del Tempio, Monte degli Ulivi e Città di David, per non parlare dei miliardi di investimenti internazionali previsti per il nuovo stato palestinese smilitarizzato. I palestinesi dovevano solo rinunciare al “diritto” al ritorno (dentro Israele) e firmare un accordo che prevedesse “la fine del conflitto e delle rivendicazioni”. Se l’obiettivo dei palestinesi era davvero due stati per due popoli, e volevano veramente uno stato arabo palestinese indipendente che vivesse a fianco dello stato ebraico come previsto dalla risoluzione 181/47 dell’Assemblea Generale dell’Onu, perché il conflitto non è stato risolto?

Tutta la propaganda palestinese sul “diritto al ritorno” indica senza mezzi termini l’obiettivo di cancellare lo stato ebraico dalla carta geografica

In un recente articolo su The Hill, gli autori Dennis Ross e David Makovsky, due veterani negoziatori e consiglieri per la pace che dovrebbero saperne qualcosa, criticando il piano di pace di Trump facevano riferimento alla “soluzione a due stati” e a un “fattibile risultato a due stati”. Sono termini che per i palestinesi significano cose completamente diverse da quello che significano per i negoziatori occidentali. Per i palestinesi, “due stati” significa uno stato esclusivamente arabo in Cisgiordania e uno stato bi-nazionale in Israele destinato col tempo ad essere governato dagli arabi, perché i palestinesi non rinunceranno mai al “diritto al ritorno”, come hanno ben documentato nel recente libro The War of Return i due esponenti della sinistra sionista Einat Wilf e Adi Schwartz. La rivendicazione palestinese è che tutti i profughi palestinesi e i loro discendenti siano in perpetuo titolari del diritto di stabilirsi in Israele in qualsiasi momento a loro scelta. Che significa, in altre parole, la distruzione demografica di Israele come stato ebraico.

I negoziatori occidentali e i politici di entrambi i partiti americani non hanno mai capito, o lasciato intendere d’aver capito, cosa vogliono davvero i palestinesi, convinti che la ricetta giusta per colmare il divario fosse quella di lasciare nell’ambiguità tutti i documenti tra le due parti cosicché entrambe potessero sostenere d’aver ottenuto ciò che volevano. Invece, l’unico approccio logico per porre fine davvero al conflitto è quello di scrivere documenti che siano il più chiari, inequivocabili e specifici, con tutti i puntini sopra le i, in modo che in futuro nessuna delle parti possa sostenere d’avere questioni ancora aperte. Anche le circostanze contingenti dovrebbero essere incluse nell’accordo, con un meccanismo atto a reagire a qualsiasi violazione.

Perché? Perché allo stato attuale gli arabi palestinesi non possono firmare un accordo che metta fine a tutte le loro rivendicazioni e firmare una clausola di fine-conflitto che riconosca il diritto di uno stato ebraico ad esistere e vivere indisturbato su terre che sono state musulmane. Ne parlai nel 2004 con il presidente Bill Clinton, un uomo che ha davvero fatto il massimo per risolvere il conflitto. Sorprendentemente, nonostante il suo sincero impegno personale per la soluzione del conflitto, Clinton non sembrava cogliere l’importanza essenziale di arrivare alla firma di una clausola di fine-conflitto, pur dicendomi che anche i primi ministri Yitzhak Rabin ed Ehud Barak avevano insistito su questo punto, come avrebbe fatto nel 2008 il primo ministro Ehud Olmert. Ecco dove sta l’eterno punto cieco dei negoziatori occidentali e dei presidenti americani, che sembrano ansiosi soltanto di arrivare alla firma di un accordo, inspiegabilmente convinti che l’ambiguità creerà fiducia. Ecco dove sono falliti gli Accordi di Oslo, che elargirono beni concreti in cambio di promesse non mantenute.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen: “Non riconoscerò mai l’ebraicità dello stato o uno stato ebraico”

I mediatori di pace occidentali hanno sempre affermato, senza una base credibile, che riconoscere il “diritto al ritorno” dei palestinesi è solo un gesto necessario per salvare la dignità palestinese, e che i palestinesi non ne potranno mai usufruire sapendo che solo un numero simbolico di profughi potrà essere autorizzato a stabilirsi dentro Israele. Basterebbe invece ascoltare ciò che dicono i capi palestinesi, da Yasser Arafat ad Abu Mazen, che contraddicono con veemenza questo assunto. In realtà, non esiste alcun “diritto internazionale” per il ritorno dei profughi, certamente non per i discendenti dei profughi (a maggior ragione se cittadini di un altro paese, come in Giordania, o se già residenti in territorio palestinese, come a Gaza e in Cisgiordania ndr). Se i mediatori vogliono davvero una pace sostenibile, in un eventuale accordo che contempli scambi di territori devono anche  riconoscere esplicitamente che Israele ha legalmente diritto a confini riconosciuti e definitivi. Altrimenti, come per la questione dei profughi, indipendentemente da quale accordo verrà firmato, i palestinesi avranno sempre il pretesto per sostenere che ci sono ancora questioni aperte, che Israele ha “rubato” terra palestinese e, di nuovo, predicare e prepararsi per un’altra guerra.

Lo ha detto come meglio non si potrebbe il filo-palestinese Middle East Monitor: “I palestinesi continueranno a perseguire una pace giusta che garantisca alle generazioni future il loro diritto di nascita: in un modo o nell’altro, la terra verrà loro restituita”. Occidentali ingenui sentono le parole “pace giusta” e presumono che significhi “due stati per due popoli”. Ciò che in realtà significa è il diritto illimitato e perpetuo per ogni palestinese di stabilirsi in Israele, dal momento che – secondo questa visione – nessun governo o organismo palestinese è autorizzato a rinunciare alla pretesa di ogni singolo discendente palestinese di essere personalmente considerato “defraudato titolare” di quello che oggi è Israele.

Il dibattito sulla possibile annessione ha oscurato i veri termini del conflitto. La domanda non è se l’eventuale annessione da parte di Israele del 30% della Cisgiordania porrebbe fine al sogno di uno stato palestinese. La domanda da porsi è: i palestinesi sarebbero disposti ad accettare la Cisgiordania, con scambi di terra che garantiscano la sicurezza di Israele, e firmare una clausola di fine-conflitto accettando l’esistenza dello stato ebraico? La risposta per il futuro prevedibile è no. Questo non è un conflitto territoriale, altrimenti sarebbe già finito da molto tempo. Se questo ostacolo per arrivare a un vero accordo globale e definito è in questo momento troppo alto da superare, pazienza. Ciò che serve è l’onestà di dirlo chiaramente, e dire chiaramente che l’eventuale accordo di pace non è solo una lista di inutili concessioni da parte di Israele.

Se tutto ciò che i palestinesi sono in grado di fare, allo stato attuale, è negoziare uno status quo un po’ migliore, con più sviluppo economico e investimenti in cambio della sospensione delle violenze, allora questo sarà il compito di questa generazione.

Il piano di pace di Trump come qualsiasi altra proposta di accordo, non sarà mai in grado di reggersi e durare nel tempo se non include una clausola di fine-conflitto, un riconoscimento dell’esistenza di due stati per due popoli che affermi chiaramente che uno di questi stati è ebraico, e la fine assoluta di ogni presunto “diritto” dei discendenti dei profughi palestinesi originari di stabilirsi dentro lo stato di Israele.

(Da: Jerusalem Post, 15.7.20)

In giallo/ocra, lo stato palestinese che esisterebbe già oggi se nel 2008 i palestinesi avessero accettato la proposta di Olmert (clicca per ingrandire)