Perché il rifiuto palestinese della pace non fa mai notizia?

Abu Mazen ha ammesso d’aver rifiutato l’offerta di accordo di Ehud Olmert, ma le convinzioni di chi dà sempre la colpa a Israele non cambiano mai

Di Marco Paganoni

Benché fossimo tutti comprensibilmente assorbiti dai tragici fatti di Parigi e dalle loro conseguenze, pare perlomeno curioso – in realtà, inquietante – che sia passata sotto silenzio una notizia che dovrebbe far saltare sulla sedia chiunque si occupi con qualche competenza del conflitto israelo-arabo-palestinese e del (mancato) processo di pace.

La notizia è che in un’intervista andata in onda la sera dello scorso 17 novembre sul Canale 10 della tv israeliana, il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ha serenamente ammesso d’aver rifiutato, nel 2008, l’offerta dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert di creare uno stato palestinese che comprendesse, oltre alla striscia di Gaza, il 93,7% della Cisgiordania, più territori israeliani equivalenti a un 5,8% della Cisgiordania, più un collegamento fra Gaza e Cisgiordania anch’esso parte dello stato di Palestina e persino un trasferimento della Città Vecchia di Gerusalemme sotto controllo internazionale. “Non ero d’accordo – racconta Abu Mazen – Rifiutai subito”.

Vale la pena notare che, mutatis mutandis, nel 1947-48 David Ben Gurion, pur di conseguire l’indipendenza nazionale, accettò un’offerta molto meno favorevole, dal punto di vista sionista, di quelle che Yasser Arafat e Abu Mazen hanno ripetutamente rifiutato negli ultimi quindici anni.

Dunque hanno ragione coloro che non si stancano di ripetere, per lo più inascoltati, che i palestinesi hanno respinto occasioni d’oro per fare la pace e ottenere l’indipendenza a fianco di Israele. E che insistono a domandarsi perché l’abbiano fatto, e come si possa incolpare Israele dei rifiuti palestinesi. Non lo ripete solo Benjamin Netanyahu. Lo ripetono da tempo anche commentatori indipendenti come, per citarne solo alcuni, Ari Shavit, Ben-Dror Yemini, Neville Teller, Dror Eydar, Nahum Barnea; per non dire di diplomatici e statisti americani come Condoleeza Rice, Dennis Ross e lo stesso Bill Clinton. Ma evidentemente è vero che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Di fronte all’esplicita confessione di Abu Mazen, avranno qualche ripensamento gli infaticabili sostenitori della disponibilità palestinese, quelli per cui “se solo Israele non fosse così intransigente, se solo cedesse qualcosa, la pace sarebbe fatta”? Voglio dire: l’avrebbero, questo ripensamento, se qualcuno avesse dato notizia di quella confessione sui mass-media italiani? Non ci conterei troppo.

La mappa della Palestina esposta all’Onu in occasione della Giornata di Solidarietà Palestinese 2005: Israele è cancellato dalla carta geografica

Sia chiaro. Il punto non è compiacersi del rifiuto di Abu Mazen, come se Israele avesse bisogno di un alibi per mantenere le cose come stanno. In tanti siamo preoccupati per il futuro di Israele come stato ebraico e democratico, giacché vediamo i pericoli che corre se non riesce a sbarazzarsi del controllo sulla popolazione palestinese, cioè dell’occupazione. Ma la domanda è: come sbarazzarsi dell’occupazione se anche i palestinesi “più moderati” rifiutano sistematicamente ogni ragionevole proposta di soluzione? Siamo preoccupati, ma preoccuparsi non significa ripetere il mantra della soluzione “a due stati” senza porsi il problema di chi è che davvero la rifiuta. Augurarsi la soluzione “due stati per due popoli” non significa chiudere occhi e orecchie di fronte al rifiuto palestinese esplicito, ripetuto e propagandato nelle televisioni, nelle scuole, nelle moschee.

Non dare notizia dell’intervista di Abu Mazen non è semplice disinformazione. E’ autoinganno, è negazione della realtà. A quale scopo? Forse per dipingere Israele come la parte intransigente, dunque colpevole, e dipingere se stessi come i premurosi “amici di Israele” che – per il suo bene, naturalmente – devono redarguirlo e condannarlo?

Un’altra notizia: anche questo 29 novembre, come ogni anno, è stata organizzata alle Nazioni Unite la “Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, che serve per denunciare come un crimine storico la risoluzione che le stesse Nazioni Unite approvarono il 29 novembre 1947 per la spartizione del Mandato Britannico in due stati, uno arabo e uno ebraico. In altri termini, ogni anno i palestinesi in questa giornata ribadiscono il loro rifiuto della spartizione. Cioè, della soluzione “due stati per due popoli”: ogni anno, esplicitamente, nella sede stessa delle Nazioni Unite.

Con tutta la buona volontà, è su queste basi che si può costruire un accordo per la coesistenza pacifica fra uno stato palestinese e lo stato di Israele? E’ proprio verso Israele che devono scagliare i loro benintenzionati strali, i volonterosi costruttori di pace? Sempre che siano davvero benintenzionati. Sempre che abbiano avuto notizia di ciò che i dirigenti palestinesi vanno dicendo non solo alla tv palestinese, ma anche alle cerimonie dell’Onu e persino alla tv israeliana.

(Da: informazionecorretta.com, 30.11.15)

 

Un conflitto più semplice da capire di quanto non si pensi (più complicato risolverlo):