Perché non prendere in parola Netanyahu?

Tanti, che credono ciecamente alle parole moderate di Abu Mazen e mai ai suoi proclami intransigenti, fanno esattamente il contrario quando si tratta del primo ministro israeliano

Di Ben-Dror Yemini

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

In un incontro di pochi giorni fa con il ministro degli esteri dell’Unione Europea Federica Mogherini, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha proposto di tenere una serie di colloqui sui “confini degli insediamenti”. Gilad Erdan, il cui titolo di ministro per gli affari strategici ne fa uno di quelli che si potrebbero definire i “sei ministri degli esteri” di Israele, ha aggiunto che “tali negoziati comporteranno concessioni territoriali”.

Come ogni altra proposta collegata a Netanyahu, è partito il coro tradizionale con il suo noto ritornello: “Ma chi crede di prendere in giro, non parla sul serio, è solo un’altra mossa per guadagnare tempo, sta imbrogliando di nuovo”.

È interessante notare che, quando invece Netanyahu dice qualcosa di segno opposto come ad esempio l’affermazione: “Non ci sarà uno stato palestinese durante il mio prossimo mandato”, improvvisamente diventa la persona più affidabile del mondo, uno che intende sul serio ogni singola parola che dice anche se l’affermazione è stata fatta – come in quel caso – nel corso di una intervista a braccio, al culmine di una campagna elettorale che lo vedeva teso a mobilitare uno a uno tutti gli elettori del Likud.

Non è chiaro perché diavolo Netanyahu venga visto come un maestro del raggiro solo quando dice qualcosa che suona moderato. Ed è curioso come quegli stessi critici di Netanyahu sono certissimi che ogni proclama intransigenza e ogni rifiuto del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sono fatti unicamente “a fini interni”, mentre ogni sua affermazione vagamente moderata è “la prova provata che il leader palestinese vuole la pace” e deve essere preso sul serio.

La questione degli insediamenti è il più grande pomo della discordia tra Israele e leader occidentali. Questi ultimi sono convinti che Israele si stia espandendo, soffocando ogni possibilità di creare uno stato palestinese. Non è vero. La crescita avviene principalmente all’interno dei grandi blocchi di insediamenti. La proposta di Netanyahu (definire col negoziato, una volta per tutte, quali insediamenti sono destinati a restare in Israele) servirebbe a risolvere il perenne contenzioso con Europa e Stati Uniti.

"Abu Mazen ha già detto di no e continuerà a dire di no ad ogni e qualsiasi proposta che non preveda il 'diritto al ritorno' in massa dentro Israele".

“Abu Mazen ha già detto di no e continuerà a dire di no ad ogni e qualsiasi proposta che non preveda il ‘diritto al ritorno’ in massa dentro Israele”.

Dopotutto il piano di pace di Clinton, l’iniziativa di Ginevra e la proposta di Olmert contemplavano tutti l’annessione dei maggiori blocchi di insediamenti (quelli dove vive il grosso della popolazione israeliana di Cisgiordania). E dunque, perché mai le attività edilizie a Ramat Shlomo, che non sarà mai ceduto nel quadro di qualunque futuro accordo di pace, deve scatenare ogni volta reazioni che suonano come se avessimo a che fare con attività edilizie israeliane nel cuore di Jenin?

Correndo su e giù fra Ramallah e Gerusalemme, il Segretario di stato americano John Kerry aveva preparato un progetto di proposta che non era poi molto diverso dal piano Clinton. Netanyahu sembrava propenso a rispondere positivamente alla maggior parte delle sue clausole; solo non intendeva accettare la divisione di Gerusalemme.

In un incontro cruciale alla Casa Bianca il 17 marzo 2014, Abu Mazen e il suo team hanno respinto l’offerta: nello stesso identico modo con cui lo stesso Abu Mazen aveva respinto l’offerta di Ehud Olmert nel 2008, e nello stesso identico modo con cui Yasser Arafat aveva respinto la proposta di Clinton alla fine del 2000.

Tzipi Livni, con grande onestà, ha chiarito che i negoziati mediati da Kerry non sono falliti a causa di Netanyahu, ma soprattutto a causa di Abu Mazen. Il moderato, moderatissimo leader palestinese ha già detto di no, e continuerà a dire di no ad ogni e qualsiasi proposta che non preveda il “diritto al ritorno” in massa dentro Israele.

In questo contesto, la sinistra sionista avrebbe dovuto cogliere al volo l’iniziativa di Netanyahu volta a determinare i “confini degli insediamenti”, perché alla luce di queste posizioni di Abu Mazen, nonché della nota situazione geopolitica in Medio Oriente e anche dell’assetto del nuovo governo israeliano, attualmente non vi è alcuna concreta possibilità di arrivare a un accordo di pace globale. Ma c’è la concreta possibilità di adottare misure che scongiurino il disastro dello “stato unico”. E un passo importante in questa direzione è quello di porre limiti precisi e concordati alla crescita degli insediamenti.

Si può fare, perché nel quadro dei colloqui con Kerry Netanyahu ha accettato il concetto di uno stato palestinese che copra più del 90% della Cisgiordania. L’avrà anche fatto sotto pressione, ma lo ha dato. Dunque, un dialogo è possibile.

C’è lo spazio per fare un importante passo avanti. E quando diminuisse il pericolo che Giudea e Samaria (la Cisgiordania) cadano nelle mani di una ramificazione jihadista come Hamas, si potrebbero fare ulteriori passi avanti. Ma se non si fa nulla, allora la terribile prospettiva di un singolo stato inizierà a prendere forma.

Si scopre così che i palestinesi non sono gli unici a non perdere mai l’occasione di perdere un’occasione. La nuova sinistra sionista, a differenza della sinistra sionista di un tempo, preferisce obbedire all’astio politico anziché concedersi una chance, anche se piccola, di fare un passo nella giusta direzione.

(Da: YnetNews, 29.5.15)