Più di 700 i feriti siriani curati in Israele dall’anno scorso

La difficoltà di trattare pazienti mal curati, traumatizzati e convinti di trovarsi in un paese “nemico”

Un’operatrice medica dell’ospedale da campo allestito dalle Forze di Difesa israeliane sulle alture del Golan si occupa di un ferito nella guerra civile siriana

Un’operatrice medica dell’ospedale da campo allestito dalle Forze di Difesa israeliane sulle alture del Golan si occupa di un ferito nella guerra civile siriana

Quando due mesi fa un’ambulanza dell’esercito israeliano ha portato un ferito siriano allo Ziv Medical Center di Safed, una città nel nord Israele, i medici non sapevano esattamente da dove venisse. Hanno visto che gli era stata amputata una gamba, e sulla base del suo frammentario resoconto e delle evidenze fisiche hanno dedotto che era stato colpito da una granata. Ma non sapevano esattamente come fosse arrivato lì. E ora che lascia l’ospedale, non sanno dove sia diretto. “Io non ho paura – aveva detto al suo arrivo il siriano, il cui nome non viene rivelato perché la Siria è tuttora un paese ufficialmente in stato di guerra contro Israele – Non può accendermi niente di peggio, quindi non mi importa se mi trovo in Israele”.

Nonostante i decenni di ostilità della Siria verso Israele, sono centinaia le vittime di tre anni di guerra civile siriana, spesso in pericolo di vita, che sono state curate in ospedali israeliani. Il personale medico e paramedico israeliano, pur confermando d’essere ben lieto di curare i siriani, sottolinea che si tratta di una categoria di pazienti che presenta problemi del tutto particolari.

Un ferito siriano è arrivato in Israele portando questa lettera redatta da un medico siriano su un foglio di quaderno macchiato di sangue, per spiegare le lesioni del paziente

Innanzitutto presentano un quadro clinico spesso assai complicato dovuto all’uso indiscriminato di bombardamenti pesanti che viene fatto nel conflitto civile siriano, e al fatto che spesso i pazienti arrivano in ospedale diversi giorni dopo aver essere stati feriti, il che complica le cose. E poi i feriti sono spesso diffidenti nei confronti degli israeliani, una popolazione che sono stati educati a temere e disprezzare, il che rende difficile il trattamento dei loro traumi emotivi, oltre a quelle fisici, da parte del personale israeliano. “Come paramedici – dice Refaat Sharf, un’infermiera dello Ziv Medical Center che ha già trattato 162 pazienti siriani – è un caso senza precedenti occuparci di feriti come questi. Non eravamo abituati a queste lesioni né per tipo né per frequenza”.

Dallo scorso anno, oltre 700 feriti siriani sono arrivati negli ospedali israeliani attraverso il confine tra Siria e Israele sulle alture del Golan. Le Forze di Difesa israeliane vi hanno allestito un ospedale da campo che tratta i casi in arrivo e trasferisce agli ospedali del nord del paese quelli più gravi che non possono essere curati sul posto. In alcuni casi il ferito è accompagnato da un membro della famiglia.

Gli ospedali del nord d’Israele si sono fatti una grossa esperienza nel trattamento di pazienti feriti in battaglia: basti pensare al recente conflitto dell’estate 2006 fra Israele e il gruppo terrorista libanese Hezbollah. Ma in quel conflitto tipicamente i feriti, militari e civili, ricevevano le prime cure molto rapidamente.

Joseph Guilbard, direttore della neurochirurgia pediatrica nell’ospedale Rambam di Haifa, ricorda il caso particolarmente grave di un bambino siriano arrivato in coma profondo con una grave lesione cerebrale. Dopo diversi interventi chirurgici, è stato dimesso quando era ormai in grado di camminare con le proprie gambe.

Soldati israeliani trasportano un ferito siriano ferito nell’ospedale da campo allestito in una località (non resa nota) sulle alture del Golan

Soldati israeliani trasportano un ferito siriano ferito nell’ospedale da campo allestito in una località (non resa nota) sulle alture del Golan

“Se ti vedi come un medico, un chirurgo, uno specialista nel trattamento del trauma, garantisci lo stesso trattamento a tutti – dice Hany Bathoth, direttore dell’unità trauma del Rambam – In ogni trauma è così: senti d’aver aiutato dei feriti e questo ti dà forza”.

Il personale ospedaliero incaricato di offrire sostegno psicologico riferisce che i siriani sono restii a raccontare le loro esperienze. Oltre al trauma della guerra, vi è il timore aggiuntivo che nasce dal fatto di trovarsi in uno stato “nemico”. Per questo si ricorre ad ogni livello possibile all’intervento di arabi israeliani che condividono la lingua e certe norme culturali con i feriti, aiutando i pazienti siriani a superare il divario culturale che incontrano. “A proposito del rispetto per uomini e donne – spiega Johnny Khbeis, un arabo israeliano che lavora come “clown ospedaliero” allo Ziv Medical Center – un paziente siriano maschio non è a suo agio con una donna. Ci sono donne che cambiano le lenzuola dei letti, e questo per loro è difficile perché da loro non accade”.

Una donna siriana con il figlio di 8 anni, nell’ospedale di Nahariya, Israele

Una donna siriana con il figlio di 8 anni, nell’ospedale di Nahariya, Israele

Adi Pachter-Alt, vice direttore degli assistenti sociali del Rambam, ridimensiona il peso dei sentimenti specifici verso Israele dei pazienti siriani. “La loro riluttanza ad aprirsi e le nostre conseguenti difficoltà nel dare sostegno emotivo nascono dalla diffidenza dovuta al fatto che si trovano in uno stato di shock post-traumatico e in un paese straniero: sono condizioni in cui uno si sente molto solo e molto sospettoso”.

Tutto il personale concorda nel riferire che, quando lasciano l’ospedale, i pazienti siriani sono grati per l’assistenza che hanno ricevuto. Il paziente siriano dimesso dallo Ziv Medical Center dice che la sua opinione su Israele si è ribaltata durante il ricovero: “Prima della rivolta, le autorità ci dicevano che Israele è il nemico e che noi lo dobbiamo combattere – dice – Ma dopo quello che è successo, ho visto come in Israele si prendono cura di tutti i pazienti. Tutti gli israeliani che ho incontrato, arabi ed ebrei, apparivano uniti”.

(Da: Times of Israel, 11.4.14)

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