Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen

La voce autentica, pura, reale di un bambino nella Shoah

di Sara Ferrari

image_3618La storia dell’infanzia dello scrittore israeliano Uri Orlev è, nei suoi risvolti tragici, una vicenda comune a molti bambini ebrei della stessa generazione, travolti dalla guerra e dagli orrori dello sterminio. Uri Orlev nasce come Jerzy Henryk (Jurek) Orłowski nel 1931, a Varsavia, in una famiglia di ebrei assimilati. Allo scoppio della guerra è privato del padre, il quale, medico e ufficiale dell’esercito polacco, viene fatto prigioniero sul fronte russo e perde ogni contatto con i propri cari. Nell’ottobre del 1940 Jerzy, insieme alla madre e al fratello minore Kazik, entra nel ghetto di Varsavia. Due anni dopo la madre si ammala, lasciando i due figli alle cure della zia Stefania (“Stef”). Un anno più tardi, la donna viene uccisa dai nazisti nel proprio letto di ospedale. Dopo aver cambiato per varie volte nascondiglio, nell’estate del 1943 i due fratelli Orłowski sono deportati insieme alla zia Stef nel campo di Bergen-Belsen, dove resteranno fino alla liberazione, nell’aprile del 1945. Dopo la guerra, Jurek arriva nella Palestina Mandataria con il fratello. Secondo le consuetudini del periodo, gli viene cambiato il nome: da questo momento “diventa” Uri Orlev. Nel 1954 può finalmente riabbracciare il padre, giunto anch’egli in Israele. Dopo aver vissuto nel kibbutz Ginegar, Orlev si trasferisce a Gerusalemme, dove risiede tutt’oggi con la famiglia.
Orlev inaugura la propria carriera letteraria nel 1956 con il romanzo, parzialmente autobiografico, Ayalei oferet (Soldatini di piombo), incentrato sulle esperienze vissute col fratello durante anni del conflitto. Soldatini di piombo è stata, tuttavia, solo la prima di un lungo elenco di opere narrative, tra cui ricordiamo ancora Hayat Ha-hoshekh (La bestia d’ombra, 1976), Ha-Yi Be-Rehov Ha-Tziporim (L’isola in via degli uccelli, 1981), dal quale è stato tratto il film omonimo, Mishak Ha-hol (Gioco di sabbia, 1996) e Rutz, Yeled, Rutz (Corri, ragazzo, corri, 2001). Nel 2005, presso la casa editrice dell’Istituto Yad Vashem, esce Shirim Mi-Bergen-Belsen, 1944 (Poesie di Bergen-Belsen, 1944), un volume bilingue che raccoglie quindici liriche scritte durante la prigionia e la loro traduzione ebraica, a cura dello stesso Orlev. Questi e altri volumi hanno reso Uri Orlev uno degli scrittori israeliani più amati e tradotti nel mondo, l’unico, sinora, a essere stato insignito dell’importante Premio Hans Christian Andersen per la letteratura per l’infanzia, nel 1996.
Se la storia personale di Orlev è stata, purtroppo, condivisa da molti, del tutto straordinaria è, invece, la sua prospettiva sulle atrocità vissute durante gli anni dalla Shoah. Il suo, infatti, non è lo sguardo di un adulto che ricompone, ricostruisce e rielabora le proprie vicende, bensì quello di un bambino. Così Orlev ha scelto di affrontare il fardello della memoria. Si tratta di una decisione cosciente, ma non per questo priva di sofferenza. Il dolore, infatti, sembra essere troppo grande per essere elaborato: “Non sono capace di pensarci o di scrivere su questo argomento o di raccontare ciò è successo dal punto di vista di un adulto. È un trauma che non sono pronto ad affrontare. Per me è come camminare su una sottile lastra di ghiaccio. Se il ghiaccio dovesse rompersi, non sono sicuro che sarei capace di tornare indietro”. Lo sguardo di Orlev è, dunque, rimasto quello di un bambino dall’intelligenza acuta, il quale, sebbene sia costretto a vivere esperienze tremende, impossibili da dimenticare, riesce con coraggio a costruirsi un ricco mondo interiore, in cui trovano spazio lo stupore, la speranza nel futuro e la gioia, tipici dell’infanzia. È lo sguardo esterrefatto e un poco divertito del bimbo del ghetto che, davanti a un uomo spinto dalla fame a rubargli il panino, inghiottendolo senza nemmeno scartarlo, non può fare a meno di domandarsi come questi sia riuscito a mandar giù anche lo spago. Ciò, beninteso, non significa ridicolizzare la Shoah, bensì spogliarla di ogni facile retorica, presentandola viva e pulsante agli occhi dei lettori, i quali entrano affascinati nel mondo di Uri Orlev e accolgono facilmente le sue narrazioni.
Come scrive Yael Dar, all’interno della produzione di Uri Orlev, le Poesie di Bergen-Belsen costituiscono “una sorta di chiusura del cerchio”, il vasto cerchio di un’opera che ha fatto ritorno alla propria sorgente, lontana, ormai, nel tempo e nello spazio. È una testimonianza pura, reale, la voce autentica di Jurek Orłowski, un bambino nella Shoah. Ma dove finisce Jurek Orłowski e dove inizia Uri Orlev? Questo parrebbe lecito chiedersi dopo aver dato uno sguardo all’edizione originale del volume, dove spicca il sottotitolo “scritto da Jurek Orłowski – tradotto da Uri Orlev”, come se tra le due identità esistesse una separazione, una cesura. Nella vita dell’autore, di certo, la Shoah ha rappresentato un taglio netto, un distacco dall’innocenza e dalla felicità dei primi anni. Tuttavia, leggendo i versi della raccolta non si avverte una contrapposizione tra le due identità, nemmeno da un punto di vista linguistico. Si percepisce, piuttosto, una forte tensione tragica, la quale si risolve proprio nel verso, dove i due individui si riuniscono, amplificando il potenziale emotivo del suo contenuto.
La raccolta Poesie di Bergen-Belsen, 1944 è ricca di spunti e di temi differenti. Accanto all’espressione del dolore privato per la perdita della madre e agli aspetti più crudeli della Shoah, quali i trasporti verso i campi di sterminio, la morte dei bambini, il disperato coraggio dei combattenti del ghetto, troviamo, infatti, anche temi universali, come la contrapposizione tra bene e male, l’ingiustizia e la caducità della vita. Poesie di Bergen-Belsen, 1944 costituisce, inoltre, un’ulteriore testimonianza dello stretto rapporto esistente tra poesia e Shoah. Notiamo, infatti, come la scrittura poetica dia forma alla sofferenza del giovane autore, che la utilizza come strumento principale per esprimere un’angoscia altrimenti insopportabile: “Ma, a volte, alla mia anima proprio non riesce di negare, / allora prendo dei fogli e inizio a tracciare / lettere, / scrivo che sto male, e che soffro con tutto il mio essere (da I miei tormenti). Soprattutto, però, la poesia sorregge lo spirito di Jurek Orłowski-Uri Orlev, aiutandolo a preservare in se stesso, seppur nell’orrore, “tutto ciò che dell’uomo è prezioso”, ossia il senso morale, la speranza e il coraggio.
(dall’introduzione al volume)

L’AUTORE
Uri Orlev é nato come Jerzy Henryk (Jurek) Orlowski nel 1931, a Varsavia. Dopo aver perso la madre, uccisa dai nazisti, fu deportato insieme al fratello e alla zia nel campo di Bergen-Belsen. Oggi vive a Gerusalemme. Scrittore di fama internazionale, ha pubblicato numerosi libri di narrativa per ragazzi e adulti.

IL LIBRO
Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (1944), a cura di Sara Ferrari, Giuntina, Firenze, 2013, pp. 122.

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