Portali a casa, Abu Mazen

La questione dei profughi è il vero test per capire se l'AP vuole il bene della sua gente.

Da un articolo di Evelyn Gordon

image_888I politici israeliani hanno ripetutamente dichiarato che il vero test sulla volontà dell’Autorità Palestinese di fare la pace è vedere se combatterà le organizzazioni terroristiche a Gaza dopo il ritiro di Israele. Si tratta sicuramente di una questione cruciale, ma non si deve ignorare un altro test altrettanto decisivo per capire le intenzioni dell’Autorità Palestinese: il suo trattamento dei profughi palestinesi.
La dirigenza palestinese sostiene da anni di non perseguire più la distruzione di Israele: quello che vuole è uno Stato con il quale poter migliorare le condizioni di vita del proprio popolo. E la comunità internazionale ha accettato questa rivendicazione perché suona molto ragionevole. Tuttavia, con il modo in cui tratta i profughi l’Autorità Palestinese continua regolarmente a dimostrare il contrario. Durante i dieci anni del governo di Yasser Arafat, non un solo profugo palestinese è stato trasferito dalle baraccopoli dei campi profughi in una casa vera e propria, anche se moltissimi di loro vivevano sotto il pieno controllo dell’Autorità Palestinese. E non fu per mancanza di fondi: sin dalla sua nascita, l’Autorità Palestinese è stata uno dei maggiori destinatari di aiuti pro capite al mondo. Ma l’Autorità Palestinese ha preferito lasciare i profughi nello squallore pur di creare sostegno internazionale alla sua rivendicazione di insediare i profughi, e i loro discendenti, all’interno di Israele (creando in questo modo una maggioranza palestinese che porterebbe alla fine “pacifica” dello Stato di Israele).
Tale comportamento avrebbe dovuto dimostrare chiaramente che l’obiettivo di Arafat non era quello di migliorare la vita della sua gente, bensì quello di scalzare demograficamente Israele. Eppure, sia Israele che il resto del mondo restarono inspiegabilmente sorpresi quando, nel luglio 2000, Arafat rifiutò di fare definitivamente la pace in cambio di uno Stato sulla quasi totalità dei territori, compresa Gerusalemme est.
Il successore di Arafat, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), avrà ancora meno scuse per non reinsediare i profughi fuori dai campi. Innanzitutto gli sono già stati promessi ancora più aiuti internazionali (tre miliardi di dollari all’anno). Inoltre, tutte le terre che Israele sta sgomberando nella striscia di Gaza saranno ora disponibili per tale reinsediamento. Se, ciò nonostante, Abu Mazen sceglierà di tenere ancora centinaia di migliaia di profughi nelle baraccopoli di Gaza, la conclusione invitabile sarà che anche lui, come Arafat, non è interessato a coesistere pacificamente quanto piuttosto a sfruttare la miseria dei profughi per creare pressione verso il loro trasferimento all’interno di Israele.
Ma il test, per Abu Mazen, non si ferma ai profughi di Gaza perché, a differenza di Arafat, egli potrebbe anche reinsediare profughi palestinesi da altri paesi arabi. Israele, che finora ha controllato i confini dell’Autorità Palestinese, molto probabilmente avrebbe permesso l’ingresso di molti profughi palestinesi anche al tempo di Arafat, se questi lo avesse voluto. Ma ora, a colloqui ancora in corso, pare assai probabile che, dopo il completamento del disimpegno, l’Autorità Palestinese riceverà pieno controllo perlomeno sull’ingresso delle persone, cosa che le permetterà di far entrare profughi nella striscia di Gaza.
Vi sono due gruppi di profughi, entrambi relativamente modesti, che meritano priorità: uno in Giordania, l’altro in Libano.
La Giordania, unico fra i paesi arabi, diede la cittadinanza alla maggior parte dei profughi palestinesi giunti dalla Cisgiordania. Ma ha anche ospitato profughi da Gaza, ai quali non venne data la cittadinanza giordana. La tesi dei giordani era che, mentre aveva avuto il controllo della Cisgiordania prima che Israele la conquistasse nel 1967, Gaza era invece sotto l’Egitto e dunque è il Cairo che deve farsi carico di quei profughi. Di conseguenza, i profughi da Gaza – che, con i loro discendenti, ammontano al massimo a 120.000 persone (le stime variano) – vivono in condizioni particolarmente miserevoli, senza diritto al lavoro né alla proprietà. E dal momento che sono originari di Gaza, sarebbero verosimilmente contenti di farvi ritorno. Dunque, se l’Autorità Palestinese vuole seriamente aiutare i profughi, quelli di Gaza che si trovano in Giordana dovrebbero essere ovviamente il primo punto di partenza.
Anche i profughi in Libano – che, compresi i discendenti, ammontano a 200-400.000 (le stime variano) – vivono in condizioni particolarmente miserevoli: oltre a non avere cittadinanza, la legge libanese impedisce loro l’accesso a circa 70 professioni, diritti di proprietà persino all’interno dei campi, e impone severe restrizioni ai loro movimenti, rendendo difficile l’uscita dai campi stessi. Il Libano ha accettato solo il mese scorso di allentare alcune di queste restrizioni, ma in pratica la situazione è solo peggiorata.
Di recente Abu Mazen ha cercato di affrontare il problema dei profughi palestinesi chiedendo ai paesi arabi di concedere ai profughi diritti di cittadinanza. Si tratta di un cambiamento teoricamente positivo rispetto alla richiesta, che faceva finora l’Autorità Palestinese, che i profughi venissero mantenuti nella situazione di apolidi. Ma è una richiesta con poco valore pratico, giacché i paesi arabi questi profughi non li vogliono. Il Libano, in particolare, odia i palestinesi per il ruolo che svolsero nella guerra civile degli anni ’70, e insiste perché prima o poi se ne vadano.
Dunque, se Abu Mazen vuole davvero migliorare la vita dei profughi, deve aprire loro le porte di Gaza: e non solo a qualche migliaii di membri delle organizzazioni terroristiche palestinesi con base in Libano. Quest’ultimo progetto, riportato dalla stampa libanese ma smentito dall’Autorità Palestinese, sarebbe peggio che inutile. Non solo non allevierebbe per nulla le pene della maggior parte dei profughi, ma anzi aumenterebbe la probabilità che Gaza si trasformi in una base terrorista (con tutte le conseguenze del caso).
Abu Mazen potrebbe obiettare che, anche volendo assorbire i profughi, le povere condizioni di Gaza non lo permettono. La stessa storia di Israele, però, basta per respingere questa obiezione. Nei suoi primi tre anni di esistenza, Israele, che allora era non solo povero ma anche assediato da nemici, riuscì ad assorbire quasi 700.000 profughi ebrei, aumentando la propria popolazione originaria di quasi il 90%. I profughi palestinesi da Libano e Giordania, invece, rappresenterebbero un incremento tra il 18 e il 38% (a seconda delle varie stime) della popolazione di Gaza. Pertanto, visti i massicci aiuti internazionali di cui gode l’Autorità Palestinese, il loro assorbimento nell’arco di alcuni anni è decisamente fattibile. Sempre che i palestinesi siano veramente interessanti, come lo erano gli israeliani, alla sorte dei loro compatrioti all’estero.
La questione dei profughi è il vero test per capire se l’Autorità Palestinese desidera veramente il bene della sua gente, o se il suo obiettivo resta quello di perseguire la distruzione di Israele con il cosiddetto “diritto al ritorno”.

(Da: Jerusalem Post, 31.08.05)

Nella foto in alto: Un’immagine del campo palestinese di Shatila (Beirut meridionale). I campi profughi, creati dai paesi arabi dopo le guerre contro Israele, non sono mai stati smantellati dall’Autorità Palestinese