Positiva la frattura del mondo arabo messa in luce a Gaza

È la precondizione per la sconfitta dell’estremismo islamista

di Jonathan Spyer

image_2388Il summit arabo a Doha della scorsa settimana intendeva unire i paesi arabi nella condanna di Israele e lanciare una campagna diplomatica contro Gerusalemme. Ma con Egitto e Arabia Saudita assenti, ed anzi attivamente impegnati a premere su altri capi arabi perché boicottassero l’incontro, il vertice si è trasformato in una riunione del blocco filo-iraniano, nel quale il Qatar è sembrato un semplice componente.
Il vertice, e la reazione che ha suscitato nella maggior parte degli stati arabi, offre una prova evidente delle dimensioni cui è giunta l’attuale polarizzazione del mondo arabo; è dà un’indicazione degli effetti che sta avendo la controffensiva israeliana anti-Hamas a Gaza sul corso degli eventi a livello regionale.
Gli unici importanti capi di stato arabi presenti a Doha erano quelli di Siria, Sudan, Algeria e Libano. Insieme a loro, un altro presidente, l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad, e i capi di Hamas e Jihad Islamica. A parte la decisione del Qatar di estromettere la missione diplomatico-commerciale israeliana presente a Doha, il summit non ha prodotto praticamente nessun altro risultato significativi se non altro perché tutti i presenti erano già di per sé nemici di Israele. Soprattutto il vertice, trasformandosi in una semplice riunione dei filo-iraniani, non è affatto riuscito a conquistare il centro della scena politica araba, anche perché ormai non esiste quasi più alcun “centro della scena politica araba” da conquistare.
La facilità con cui, nel frattempo, l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita si permettevano di respingere con insolenza la retorica incendiaria di Doha attesta il fatto che la controffensiva israeliana a Gaza viene percepita come un successo. Si dice che nelle guerre del XXI secolo, destinate a non concludersi più con la bandiera dei vincitori issata sulla capitale degli sconfitti, il fattore percezione diventa quello politicamente più importante. Mentre a Gaza si diradano i fumi dell’ultimo round di combattimenti, la percezione su entrambi i versanti del lacerato mondo arabo è che Israele ha vinto e che Hamas e i suoi alleati hanno subito un significativo battuta d’arresto.
Sono proprio le estese distruzioni inferte alle strutture di Hamas nella striscia di Gaza, unite al bassissimo numero di perdite subite da parta israeliana, ciò che rende tragicamente insulsa la pretesa di Hamas di aver conseguito almeno qualche risultato, per non dire addirittura una “vittoria”.
Dopo la seconda guerra in Libano contro Hezbollah (estate 2006), è diventato un articolo di fede e un tema favorito della propaganda filo-iraniana sostenere che Israele non sarebbe più stato capace di intraprendere una decisa azione miliare contro le forze semi-irregolari intente ad armarsi sempre più ai suoi confini settentrionale e meridionale, per via della “debolezza” del fronte interno israeliano e della sua incapacità di sopportare perdite civili e militari (fu Nasrallah che lanciò lo slogan di “Israele fragile come una ragnatela”).
Questa volta invece il modello basato sulla muqawama (“resistenza, lotta armata”) non sembra aver funzionato. I razzi non sono riusciti a creare un senso di assedio nel sud di Israele ed anzi il loro numero è andato rapidamente scemando al progredire dell’operazione israeliana. L’intervento di terra è stato portato sin nel cuore della striscia di Gaza con successo e perdite molto limitate. L’eroica “resistenza” che era stata tante volte promessa nei raduni e nei discorsi di Hamas si è squagliata senza riuscire a realizzare neanche qualche successo simbolico come la cattura di un soldato o la distruzione di un mezzo blindato, cosa che se non altro avrebbe potuto essere sbandierata come prova di valore tattico. Alla fine dei combattimenti, il dichiarato obiettivo di Hamas di ottenere l’apertura (completa e incontrollata) dei valichi fra Israele, Egitto e striscia di Gaza non è stato raggiunto e per il momento non vi sono segnali che possa essere realizzato nell’immediato futuro.
Il giornale egiziano Al-Ahram ha persino citato il leader di Hamas Khaled Mashaal, con sede a Damasco, lamentarsi del fatto che Hamas ha fatto troppo affidamento sul più virtuale degli alleati, la piazza araba, perché le venisse in soccorso facendo pressione sul regime del Cairo.
Il modello della muqawama aveva acquistato carisma per via della sua promessa di vendicare le umiliazioni e invertire l’ondata di sconfitte arabe. Una volta dimostrato che non è in grado di farlo, diventa semplicemente una delle possibili opzioni a disposizione degli arabi, e non necessariamente la più appetibile. La controffensiva israeliana a Gaza non ha ancora portato il Medio Oriente a questo punto, ma potrebbe essere ricordata come un primo, piccolo passo in questa direzione.
A questo proposito appare istruttiva la reazione delle fonti anti-iraniane e anti-siriane alla stridula retorica di Doha. Il quotidiano filo-saudita Asharq Alawsat ha fatto la predica a Hamas dicendo che “chi cerca la guerra deve essere capace di reggerne le conseguenze, e non incitare alla guerra per poi chiedere aiuto alle popolazioni e ai governi”. L’ex presidente libanese Amin Gemayel ha espresso un concetto molto simile quando ha detto: “A Gaza abbiamo visto i massacri provocati dalla strategia della resistenza”.
Non sono dichiarazioni filo-israeliane, né vogliono esserlo. La cosa funziona in questo modo. Israele fa da argine quando si oppone fisicamente alle forze anti-occidentali incrinandone così il carisma. Questo apre uno spazio in cui gli stati arabi filo-occidentali possono far avanzare l’idea che opporsi all’occidente e a Israele sia una strada che non porta da nessuna parte. Può sembrare ingiusto nei confronti di Israele, ma è esattamente in questo modo che è stato stroncato il nazionalismo estremista arabo degli anni ’60-‘70, aprendo la strada alla pace fra Israele ed Egitto. È in questo modo che di fatto Israele, difendendosi, gioca un ruolo cruciale come alleato dell’occidente.
L’ideologia estremista islamista promossa dall’Iran e le ambizioni regionali che porta con sé saranno alla fine verosimilmente sconfitte nello stesso modo, anche se il Medio Oriente è ancora molto lontano da questo punto e vi saranno ulteriori battaglie con progressi e regressi. I recenti fatti di Gaza – per parafrasare un ben noto primo ministro britannico – non sono la fine dello scontro, e neanche l’inizio della fine, ma forse rappresentano la fine dell’inizio.

(Da: Jerusalem Post, 21.01.09)

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