Prediche tardive

Lottimistico scenario di DAlema non fa che convalidare a posteriori la guerra dIsraele in Libano

Da un articolo di Alexander Yakobson

image_1360Auspicando il successo della missione della forza multinazionale in Libano, il ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema ha affermato di voler vedere il paese “stabilizzato” e “la minaccia fondamentalista allontanata dai confini di Israele”. Questo, ha detto D’Alema, “farebbe vedere agli israeliani che la comunità internazionale e l’Europa possono essere efficaci e dimostrerebbe a Israele che la sua sicurezza può essere garantita meglio con la politica che con la guerra. Il problema principale è che in Israele politica, pace e sicurezza sono cose distinte e spesso in contraddizione fra loro” (Ha’aretz, 25.08.06).
Si può solo sperare che l’ottimistico scenario si concretizzi e che la minaccia fondamentalista venga davvero rimossa dal confine settentrionale di Israele. Se accadrà, gran parte del merito andrà agli stati europei, Italia compresa.
Ma parte del merito andrà anche alla guerra in Libano, che pure non godeva del sostegno di D’Alema. È del tutto chiaro che senza quella guerra non avrebbero mai visto la luce né la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, né la forza multinazionale che potrebbe stabilizzare il confine israelo-libanese. La “minaccia fondamentalista” sarebbe certamente rimasta con tutta la sua forza nel Libano meridionale, e non sarebbe stato fatto alcun tentativo di rimuoverla.
Evidentemente il rapporto fra uso della forza militare e successi diplomatici è un po’ più complesso di quanto non lascino credere le prediche moralistiche e gli slogan semplicistici. Alcune personalità israeliane, compresi alcuni membri del governo, chiesero la fine dei combattimenti subito dopo il primo attacco aereo contro Hezbollah. Forse sarebbe stato meglio. Ma, se si realizzerà l’ottimistico scenario di D’Alema, esso non farà che convalidare a posteriori la decisione presa in quel momento di andare avanti con le operazioni militari: un cessate il fuoco in quelle prime fasi avrebbero permesso che restasse la “minaccia fondamentalista” lungo il confine e non avrebbe aperto la strada a quel processo diplomatico che, si spera, permetterà a Israele di apprendere tutti gli utili insegnamenti che il ministro degli esteri italiano desidera impartirgli.
In teoria, si sarebbe potuto ben fare uno sforzo internazionale prima della guerra, per prevenirla, anziché dopo la guerra. Perché accadesse, i diplomatici europei amanti della pace avrebbero dovuto dire a se stessi qualcosa di questo genere: Israele è uscito da Libano sei anni fa, gli Hezbollah hanno preso il controllo della zona al confine e da lì continuano a provocare militarmente Israele, ponendo anche una minaccia strategica in violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu [425/1978 e 1559 /2004] con le loro batterie di migliaia di missili capaci di colpire Israele, batterie che un giorno potrebbero essere messe a disposizione del regime iraniano, quello che invoca la cancellazione di Israele dalla mappa geografica. Per ora Israele esercita autocontrollo, ma è chiaro che una tale situazione finirà con lo scatenare prima o poi una guerra. Dunque bisogna esercitare pressioni sull’Iran, sulla Siria e sul governo libanese affinché venga riaffermata la sovranità di Beirut nel sud del paese e vengano applicate le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
Se fossero stati intrapresi questi passi, l’intera opinione pubblica israeliana avrebbe riconosciuto i vantaggi della diplomazia europea. Ma tutto ciò non fu fatto, e nemmeno tentato. Forse non ha senso lamentarsene: vi sono dei processi che possono essere innescati solo da una crisi. E giacché questo è uno di quei casi, le prediche dell’Europa a Israele, in questo contesto, appaiono inconsistenti.
Vale qui la pena di notare che la stessa guerra dei sei giorni (1967), con la conseguente occupazione di territori durata fino ai giorni nostri, avrebbe potuto essere evitata se gli stati europei, e soprattutto l’Europa intera, avessero fatto pressione sull’allora presidente egiziano Gamal Abdel Nasser dopo che questi aveva imposto il blocco navale contro Israele. Il governo israeliano guidato da Levi Eshkol diede alla diplomazia più di una chance, prima di risolversi all’azione militare. Purtroppo allora i leader europei non ritennero che fosse necessario dimostrare a Israele “che la sua sicurezza può essere garantita meglio con la politica che con la guerra”.

(Da: Ha’aretz, 31.08.06)