Proclami bellicosi e business sottobanco

Errori e privilegi dei notabili palestinesi all'origine della continua dipendenza economica dei territori da Israele

M. Paganoni per NES n. 2, anno 16 - febbraio 2004

image_59La vivacissima opposizione dei palestinesi alla barriera antiterrorismo in costruzione fra Israele e Cisgiordania e alle ipotesi di disimpegno unilaterale nasce piu’ che altro dalla profonda dipendenza che vincola tuttora l’economia dei territori a quella di Israele: una realta’ che l’Autorita’ Palestinese non ha fatto che perpetuare e incrementare con la sue scelte di politica economica dissennate e speculative. E’ questa la principale conclusione a cui e’ giunto uno studio concluso alcuni mesi da Ziyonit Fattal Kuperwasser, del dipartimento di studi mediorientali dell’universita’ Bar-Ilan. “Nei suoi primi anni di esistenza, dal 1994 al 1997 – ha scritto Danny Rubinstein, riferendo della ricerca su Ha’aretz (8.02.04) – l’Autorita’ Palestinese non ha fatto praticamente nulla per creare fonti di impiego in Cisgiordania e striscia di Gaza, e ha lasciato perdurare la tradizionale dipendenza dei palestinesi dal mercato del lavoro israeliano”.
Come e’ potuto accadere? Verosimilmente non e’ che il presidente dell’Autorita’ Palestinese Yasser Arafat e gli uomini della sua cerchia abbiano deliberatamente deciso di preservare la dipendenza economica. Il fatto e’ che, al di la’ della retorica ufficiale, tale dipendenza risulta assai conveniente sotto molti aspetti per la dirigenza economica e politica palestinese. L’ultimo, clamoroso esempio in ordine di tempo viene dalla notizia che l’azienda Al-Quds, di proprieta’ della famiglia del primo ministro palestinese Ahmed Qureia (Abu Ala), avrebbe fornito cemento per la costruzione di abitazioni israeliane a Ma’aleh Adumim e persino per tratti della barriera difensiva (TV Channel 10, 10.02.04): un caso che, se confermato, si porrebbe perfettamente in linea con la consuetudine dei notabili palestinesi, vecchia ormai di un secolo, che li vede denunciare “i complotti sionisti” con grande impiego di retorica, e fare contemporaneamente lucrosi affari con i “nemici ebrei”.
Facciamo un passo indietro. Lo studio dell’universita’ Bar-Ilan individua due periodi principali dal punto di vista della vita economica in Cisgiordania e nella striscia di Gaza prima della creazione dell’Autorita’ Palestinese. Nel primo periodo, che va dalla guerra dei sei giorni (giugno 1967) fino allo scoppio della prima intifada (dicembre 1987), l’atteggiamento prevalente era quello di promuovere l’integrazione economica fra territori e Israele. Per almeno vent’anni, gli abitanti di Cisgiordania e striscia di Gaza godettero di una liberta’ di movimento pressoche’ completa in tutto Israele e nei territori. In quegli anni, inoltre, molti palestinesi (soprattutto dalla Cisgiordania, meno dalla striscia di Gaza) lasciarono i territori per andare a lavorare nei paesi arabi produttori di petrolio. Il secondo periodo pre-Autorita’ Palestinese, dal 1988 al 1991, vide i primi casi di separazione tra Israele e territori. La prima intifada, con i suoi ripetuti scioperi e coprifuoco, ostacolo’ seriamente il quotidiano flusso di pendolari dai territori verso Israele. Gli ostacoli divennero piu’ pesanti nei mesi della prima guerra del Golfo (inverno 1990-91). E’ il periodo in cui vengono imposti i primi provvedimenti di chiusura dei territori. Ed e’ anche il periodo in cui vengono aperte le porte all’immigrazione in Israele di lavoratori stranieri da altri paesi.
“Fin dall’inizio – continua Rubinstein – fu chiaro che la separazione e gli ostacoli all’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele avrebbero danneggiato l’economia palestinese molto piu’ di quanto non avrebbero potuto danneggiare quella israeliana”. Prima dell’intifada, almeno un terzo di tutta la forza lavoro palestinese trovava impiego in Israele. Altre stime parlando addirittura del 50%. In quegli anni il lavoro in Israele svolgeva un ruolo vitale nello sviluppo dell’economia dei territori. Viceversa, in quello stesso periodo la forza lavoro palestinese giocava un ruolo relativamente marginale nell’economia israeliana (a dispetto delle diffuse interpretazioni in chiave “colonialista” della presenza israeliana nei territori). Nei momenti piu’ alti, i lavoratori palestinesi non superarono mai il 6% della forza lavoro impiegata in Israele. E quando le violenze dell’intifada e gli attentati terroristici in pieno processo di pace (1994-1996) determinarono ripetute chiusure dei territori, i palestinesi vennero rimpiazzati senza difficolta’ da lavoratori asiatici e dell’Europa orientale.
Secondo lo studio di Fattal Kuperwasser, al momento della nascita dell’Autorita’ Palestinese (1994) la forza lavoro palestinese complessiva ammontava a circa 500.000 persone, ma cresceva a un tasso di 30.000 unita’ all’anno. L’emigrazione di lavoratori palestinesi verso gli stati petroliferi era cessata verso la meta’ degli anni ’80, mentre gli errori politici della dirigenza palestinese nella prima guerra del Golfo aveva causato l’espulsione di 250.000 palestinesi dal Kuwait, in parte rientrati in Cisgiordania e striscia di Gaza. A causa di questo concorso di fattori, la disoccupazione nei territori, piuttosto bassa fino a tutti gli anni ’80, inizio’ a crescere nel decennio successivo. Nel 1992 era salita al 15%; nel 1995 al 18%. Oggi, stando ai dati del Palestinian Bureau of Statistics, e’ arrivata al 30%.
Vero e’ che la fondazione dell’Autorita’ Palestinese offri’ considerevoli opportunita’ di impiego. Vennero create agenzie governative e istituzioni pubbliche che offrirono lavoro soprattutto a diplomati e laureati. Negli anni in cui Israele governava sui territori, il personale palestinese impiegato nella pubblica amministrazione non arrivava a 40.000 unita’. Dopo la creazione dell’Autorita’ Palestinese, la cifra schizzo’ a 82.000 nel 1997, per raggiungere oggi le 140.000 persone impiegate a vario titolo nell’apparato amministrativo palestinese. Questa ipertrofica burocrazia, se da un lato offre opportunita’ di impiego, anche femminile, comporta pero’ anche una serie di conseguenze negative: spreco, corruzione, nepotismo.
La principale critica che lo studio di Fattal Kuperwasser muove alla dirigenza dell’Autorita’ Palestinese e’ quella di non aver messo in campo nessuna strategia economica che mirasse a creare posti di lavoro, al di la’ della semplice offerta di impiego “parassitario” nell’apparato statale. Nota Rubinstein: “I progetti di parchi industriali non vennero mai realizzati; nulla venne fatto per creare una infrastruttura legale e organizzativa atta a regolamentare il mercato del lavoro; non venne adottata nessuna misura volta a incoraggiare gli investimenti. Sorge la sensazione che la dirigenza economica dell’Autorita’ Palestinese abbia rivolto tutti i propri sforzi esclusivamente alla creazione di grandi monopoli economici che hanno assunto il totale controllo, fra l’altro, di benzina, farina, zucchero, sigarette, cemento, acciaio. Monopoli che hanno fruttato lauti profitti ai notabili dell’Autorita’ Palestinese e alle persone ad essa associate”.
In quegli stessi anni la dirigenza dell’Autorita’ Palestinese cercava di spremere dai paesi donatori quantita’ sempre maggiori di denaro per finanziare progetti che spesso erano mal concepiti e peggio pianificati. L’Autorita’ Palestinese dava priorita’ a progetti di forte valore simbolico sul piano della sovranita’ e del prestigio, ma di utilita’ assai discutibile, come l’aeroporto internazionale, la centrale energetica o il mai completato porto di Gaza.
Il risultato di tutto questo fu che il mercato del lavoro palestinese rimase largamente dipendente dall’economia israeliana, circostanza che naturalmente vede molte implicazioni con quanto accade in questi giorni. Secondo i dati del Palestinian Bureau of Statistics, attualmente sono circa 15.000 i palestinesi che lavorano in Israele legalmente, mentre altri 30.000 lo farebbero illegalmente: in totale, il 7% della forza lavoro palestinese, a cui bisogna aggiungere la significativa quantita’ di aziende nei territori che ancora oggi lavorano in subappalto per conto di ditte israeliane, soprattutto nei settori tessile e calzaturiero. “In altre parole – conclude Rubinstein – l’economia palestinese, in particolare per il mercato del lavoro, e’ rimasta dipendente da Israele ed e’ probabilmente destinata a subire un grave contraccolpo dall’annunciato disimpegno unilaterale israeliano”. Un fatto a cui la dirigenza palestinese avrebbe dovuto dedicare qualche attenzione, tra i proclami bellicosi e i business sottobanco.