Quando Abu Mazen dice no

Inutile fare degli insediamenti la questione principale

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2509Speriamo che il presidente Barack Obama abbia trovato il tempo di leggere il Washington Post e in particolare l’editoriale eccezionalmente illuminante di Jackson Diehl intitolato “Il gioco d’attesa di Abbas” del 29 maggio scorso.
Diehl ha intervistato il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) alla vigilia del suo incontro di giovedì con Obama alla Casa Bianca. L’editorialista, certamente non un apologeta del sionismo, definisce “intransigenti” le posizioni di Abu Mazen.
Se Obama vuole sapere come mai fare pressione su Israele mentre sostanzialmente si cede ai cosiddetti palestinesi moderati non farà avanzare la pace, troverà la risposta nell’editoriale di Diehl, che illustra i “cinque no” di Abu Mazen. E cioè: intende negoziare con Binyamin Netanyahu senza precognizioni? No. Intende riconoscere Israele come stato ebraico? No. Prenderebbe in considerazione un compromesso territoriale? No. E un compromesso sui profughi? No. Sarebbe disposto a modificare l’Iniziativa di pace araba per farne uno strumento negoziale più utile? Assolutamente no.
Seduto accanto a Obama nello Studio Ovale, Abu Mazen è sembrato tutt’altra persona, quando diceva ai giornalisti: “Sono convinto che il fattore tempo sia essenziale” e che i colloqui con Israele debbano riprendere “subito”. Ma appena un giorno prima, lo stesso Abu Mazen aveva detto a Diehl che riteneva d’avere a disposizione tutto il tempo che voleva: tempo per aspettare che passi Hamas (anche se intanto le sue forze d’élite, addestrate dagli Stati Uniti, uccidevano alcuni terroristi a Kalkilya); e tempo per aspettare “che Israele congeli gli insediamenti”. “Fino ad allora – ammetteva candidamente Abu Mazen – in Cisgiordania abbiamo una situazione buona… la gente vive una vita normale”: detto da un uomo che sostiene essere essenziale il fattore tempo.
I negoziatori palestinesi dicono che non ha senso parlare con Netanyahu perché questi non vuole discutere le questioni relative alla composizione definitiva del conflitto: opportunamente dimenticando il fatto che, quando nel 2008 negoziava esattamente su quelle questioni con Ehud Olmert e Tzipi Livni, Abu Mazen escluse qualunque risposta affermativa per stringere un accordo con loro.
I palestinesi “moderati” dicono che aspetteranno pazientemente che Obama costringa il governo Netanyahu a cadere permettendo che diventi premier la Livni, presumibilmente più flessibile. Curioso: il governo Kadima (dove la Livni era ministro degli esteri) offrì ad Abu Mazen il 97% della Cisgiordania (più uno scambio di terre per compensare la percentuale mancante). Olmert era disposto a fare concessioni su territorio, profughi ed anche su Gerusalemme. Scrive Diehl: “Abu Mazen afferma che Olmert accettò ‘in linea di principio’ il ‘diritto al ritorno’ dei profughi palestinesi, cosa che nessun primo ministro israeliano aveva mai fatto, offrendosi di accoglierne migliaia in Israele. Complessivamente l’offerta di pace di Olmert era più generosa verso i palestinesi di quelle di George Bush e Bill Clinton”. Ma non abbastanza per Abu Mazen.
Eppure adesso Abu Mazen cerca di convincere una ben disposta amministrazione che sono Netanyahu e gli insediamenti i veri ostacoli che impediscono un accordo. Gli statisti americani sono sempre stati contrari alla presenza di israeliani al di là della Linea Verde (l’ex linea armistiziale 1949-67 fra Israele e Giordania). Neanche un anno fa Condoleezza Rice era in Israele a reclamare per gli insediamenti. Ma non si può negare che oggi si registra un preoccupante mutamento di toni, a Washington, dove la questione degli insediamenti viene elevata a un grado di importanza sproporzionato, accompagnata da un mutamento di paradigma: premere su Israele e vezzeggiare i palestinesi. Questo approccio è destinato ad avvelenare sia gli israeliani che i palestinesi, non avvicinandoli per nulla a una soluzione del conflitto.
I confini definitivi devono essere negoziati. E quando lo saranno, tutti gli insediamenti sul versante “sbagliato” della linea di confine verranno smantellati, esattamente come avvenne quando Israele si ritirò unilateralmente dalla striscia di Gaza. Sarebbe pertanto ragionevole che, nel frattempo, Washington non facesse della modesta crescita naturale di queste comunità il più importante argomento di scontro. Nel contempo, un congelamento all’interno dei blocchi di insediamenti strategici, Gerusalemme compresa, quelli che Israele tratterrà comunque, in qualunque accordo definitivo, è semplicemente fuori discussione.
Detto questo, il governo israeliano deve affermare più chiaramente che non viene autorizzato nessun nuovo insediamento al di là della barriera di scurezza. E deve procedere con la massima rapidità consentita dalla legge nello sgomberare definitivamente gli avamposti illegali.
Quando gli statisti americani denigrano i dolorosi sacrifici di Israele, compreso il disimpegno; quando contravvengono gli impegni dei loro predecessori non promuovo affatto la pace. Anzi, non fanno che dare all’israeliano medio seri motivi per aver paura di fare qualunque ulteriore futura concessione.

(Da: Jerusalem Post, 1.06.09)

Nella foto in alto: il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen); alle sue spalle, il simbolo dell’Olp con la mappa delle rivendicazioni territoriali palestinesi: Israele è cancellato