Quando il vero scopo è un conflitto senza fine

Il rifiuto del compromesso proposto dalla Corte Suprema israeliana per le case di Sheikh Jarrah rispecchia lo storico rifiuto palestinese di accettare una soluzione pacifica

Di Jonathan S. Tobin

Jonathan S. Tobin, autore di questo articolo

Nel 104esimo anniversario della Dichiarazione Balfour, sotto forti pressioni sia dell’Autorità Palestinese che di Hamas quattro famiglie palestinesi ci ricordano come mai il conflitto tra ebrei e arabi non è mai stato risolto in tutti questi anni. Invece di accettare un’eccezionale proposta di compromesso della Corte Suprema israeliana che li avrebbe protetti dallo sfratto dalle case di cui non sono proprietari e per le quali si sono sempre rifiutati di pagare l’affitto, questi palestinesi hanno preferito continuare una battaglia nella quale non hanno nessuna stampella legale su cui reggersi.

Che le quattro famiglie subiranno le conseguenze di questo rifiuto è del tutto ovvio. Altrettanto ovvio è che i loro patimenti sono esattamente ciò che vogliono l’Autorità Palestinese e Hamas poiché l’unica cosa che a loro interessa, in una controversia sulla proprietà in sé piuttosto chiara, è assicurarsi che i palestinesi siano sempre visti come vittime di abusi da parte di Israele: fa parte del loro imperituro impegno a portare avanti una futile lotta che risale al 2 novembre 1917, quando la promessa del governo britannico (poi della comunità internazionale) di sostenere la creazione di una “sede nazionale” per il popolo ebraico comportò che la popolazione araba di quello che di lì a poco sarebbe diventato il Mandato Britannico dovesse scendere a compromessi e accettare che il ritorno all’indipendenza degli ebrei nella loro antica patria non si sarebbe bloccato.

Questo è il contesto dell’ultimo sviluppo nella disputa legale sulla proprietà di quattro case nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme che, stando al New York Times, ha portato al conflitto di 11 giorni dello scorso maggio, scoppiato quando Hamas e altre fazioni terroristiche nella striscia di Gaza hanno iniziato a lanciare razzi sui centri abitati israeliani (per un totale di oltre 4.000 razzi al momento del cessate il fuoco, il 22 maggio). L’affermazione che Hamas stesse cercando di difendere i diritti dei poveri palestinesi espropriati dai malvagi coloni israeliani è essa stessa falsa tanto quanto la retorica araba che ruota attorno al caso giudiziario.

2 novembre: l’attivista palestinese Mona el-Kurd e alcuni residenti arabi del quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme est annunciano in conferenza stampa il rifiuto del compromesso proposto dalla Corte Suprema

Il contenzioso di Sheikh Jarrah si trascinava da decenni nei tribunali israeliani, con i proprietari ebrei delle case in questione che cercavano di ottenere che i palestinesi che vi abitavano si trasferissero o pagassero un affitto. La lite giudiziaria è improvvisamente diventata una cause célèbre solo quando il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen decise di rimangiarsi la promessa di dare ai palestinesi di Cisgiordania la possibilità di votare un’eventuale alternativa al suo governo dispotico e corrotto, decidendo invece di restare al potere per il 17esimo anno del mandato di quattro anni a cui è stato eletto nel 2005. Cercando, come tante volte in passato, un modo per distogliere i palestinesi dal suo malgoverno, ha colto al volo il caso di Sheikh Jarrah. Hamas l’ha seguito a ruota e anzi l’ha scavalcato, mirando a terrorizzare la popolazione israeliana con una massiccia raffica di razzi allo scopo di dimostrare che è sempre impegnatissima a combattere gli ebrei, e poco male se ciò significa maggiori sofferenze per i palestinesi di Gaza.

Ma la vera menzogna sta a monte: nell’idea, ripresa dai gruppi per i “diritti umani” che cercano di demonizzare Israele e dai tanti mass-media come il New York Times che ripetono automaticamente la versione palestinese, che qui si tratti di coloni ebrei che rubano la terra e di poveri palestinesi che vengono espropriati dal colonialismo sionista. Il quartiere Sheikh Jarrah, noto anche come Shimon HaTzadik dal nome della vicina tomba di “Simeone il Giusto”, una figura del Secondo Tempio menzionata nella Mishnah, venne creato nel 1890 da ebrei che ne avevano acquistato i terreni. I residenti ebrei vissero in quelle case fino a quando non furono costretti ad abbandonarle dall’invasione del paese da parte delle forze della Transgiordania, oggi Giordania, durante la Guerra d’Indipendenza del 1948. La Legione Araba riuscì a conquistare alcune parti di Gerusalemme che la Giordania occupò illegalmente per quasi vent’anni, fino alla Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Tutti gli ebrei che vivevano in quelle zone, come gli abitanti dell’antico quartiere ebraico nella Città Vecchia entro le mura o i vicini villaggi del blocco Kfar Etzion, vennero o uccisi o cacciati via. Le quattro famiglie arabe al centro dell’attuale controversia ricevettero in dono le abitazioni dalle (illegittime) autorità d’occupazione giordane. Dopo che Israele ebbe riunificato la città nel 1967, i suoi tribunali hanno lasciato che il caso si trascinasse per decenni mentre l’ente ebraico che detiene la proprietà delle case cercava di veder riconosciuti dagli attuali residenti i suoi diritti di proprietà pagando un affitto o trasferendosi.

Veduta aerea di Sheikh Jarrah nel 1931, quando era un quartiere prevalentemente costruito e abitato da ebrei

I fatti del caso sono dunque chiari. Tuttavia la Corte Suprema israeliana, consapevole del modo in cui i mass-media internazionali hanno dipinto gli abusivi arabi come vittime di un sopruso, ha cercato di elaborare un compromesso, andando persino oltre il suo mandato legale. Le famiglie arabe possono contare sul sostegno di una parte della sinistra israeliana e dell’establishment legale che considerano l’affermazione dei diritti di proprietà degli ebrei nelle aree precedentemente occupate dalla Giordania come un pericoloso attacco allo status quo della città. Costoro, insieme agli eterni critici d’Israele all’estero, sono soliti obiettare che gli ebrei hanno il diritto di reclamare le proprietà perdute nel 1948, ma non l’hanno gli arabi che lasciarono le loro case alla vigilia di quella che credevano l’imminente  distruzione del neonato stato ebraico. In effetti, non sembra affatto irragionevole che vi siano delle conseguenze a carico della parte che si è lanciata in una guerra dall’esplicito intento genocida, come quella scatenata dagli arabi nel 1948 e poi di nuovo nel 1967, e che tali conseguenze siano diverse da quelle della parte che si è vittoriosamente difesa. Né d’altra parte, possono reclamare alcun diritto sulle proprietà di cui sono stati derubati i circa 800.000 ebrei che vennero costretti a fuggire dalle loro case nel mondo arabo dopo il 1948 e che vennero reinsediati in Israele e in Occidente.

Invece di tutelare i comprovati diritti dei proprietari ebrei delle case di Sheikh Jarrah, la Corte Suprema israeliana ha proposto alle famiglie arabe un’offerta che non avrebbero dovuto rifiutare: il compromesso proposto avrebbe consentito loro di rimanere dove stanno pagando affitti minimi e solo una parte delle spese legali delle controparti, avrebbe riconosciuto loro il diritto di riaprire il caso davanti del Ministero della Giustizia israeliano e avrebbe assicurato loro ulteriori tutele legali a garanzia di non essere sfrattati. Ma le famiglie arabe, pressate dai gruppi terroristici e dai funzionari corrotti che controllano la vita politica palestinese, hanno rifiutato il compromesso con una dichiarazione in cui si afferma che qualsiasi tentativo di ripristinare i diritti degli effettivi proprietari è un “crimine” e una questione di “pulizia etnica perpetrata da un sistema giudiziario coloniale e dai suoi coloni”.

1918: processione di ebrei adulti e bambini verso la tomba di Shimon HaTzadik (Simone il Giusto), a Sheikh Jarrah

Il linguaggio qui usato è importante. Non solo perché la loro denuncia di una “pulizia etnica” suona particolarmente beffarda dal momento che l’unica ragione per cui degli arabi vivono in quelle case è perché gli ebrei nel 1948 vennero “etnicamente ripuliti” da interi quartieri della loro antica capitale. C’è anche il fatto che definiscono lo stato d’Israele e la sua autorevole Corte Suprema come “coloni” del tutto identici all’ultimo gruppetto di ebrei ultra estremisti insediati nel più remoto insediamento in cima a una collina nel cuore della Cisgiordania. Non c’è da stupirsi che il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, abbia elogiato la loro posizione dicendo: “Non permetteremo ai tribunali dell’occupazione di estorcere con l’inganno ciò che non sono stati capaci di estorcere con la guerra. Non dovete prendere in considerazione le loro offerte perché sono un’intromissione illegale nella nostra terra”. E’ importante, questo linguaggio, perché dimostra che coloro che si sono affrettati a schierarsi contro l’eventuale sfratto degli abusivi arabi non stanno sostenendo, come credono, un qualche astratto principio dei diritti umani: in realtà stanno sostenendo l’ideologia del rifiuto contro ogni ebreo e ogni istituzione ebraica, anche la più liberale, in qualsiasi parte di Israele.

Indipendentemente da ciò che si pensa della più o meno verosimile soluzione a due stati, che i palestinesi hanno più volte rifiutato, e da ciò che si pensa dell’idea che degli ebrei vadano a vivere in aree di Gerusalemme e di Cisgiordania a maggioranza araba, parteggiare per le famiglie di Sheikh Jarrah è ingiustificato. Il loro obiettivo, e quello delle forze che li manipolano, non è la coesistenza o la pace, ma un ciclo infinito di violenza e di guerra che deve concludersi con la distruzione di Israele.

(Da: jns.org, 3.11.21)