Quando una condanna non è affatto una condanna

Per Abu Mazen, l’assassinio di israeliani innocenti non è un attentato terrorista esecrabile in quanto tale, ma solo "un’operazione con armi da fuoco" che rischia di minacciare “la stabilità”

Di Stephen M. Flatow

Mentre si susseguono nuovi tentativi di attentati anti-israeliani

martedì mattina un agente di polizia ferito a coltellate da un palestinese ad Ashkelon è riuscito a colpire e uccidere l’aggressore; domenica una palestinese che aveva pugnalato alla gola un agente è stata uccisa dalla reazione dei militari; domenica sera due ebrei ortodossi sono stati feriti da colpi d’arma da fuoco mentre tentavano di avvicinarsi alla Tomba di Giuseppe, a Nablus, ripetutamente vandalizzata sabato e domenica da dimostranti palestinesi; in questo clima di tensione è anche accaduto che un giovane ebreo affetto da problemi psichiatrici ha strappato l’arma a un soldato ad Ashkelon e ha cercato di usarla prima di essere a sua volta mortalmente ferito

e continuano le operazioni anti-terrorismo delle Forze di Difesa israeliane, soprattutto nell’area di Jenin dove più volte hanno dovuto affrontare scontri a fuoco con terroristi armati, è lecito domandarsi in cosa consista effettivamente la molto pubblicizzata “condanna” da parte del presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen dell’attentato perpetrato giovedì sera nella centralissima Via Dizengoff di Tel Aviv.

Stephen M. Flatow

La “condanna” di Abu Mazen – fa notare Stephen M. Flatow su jns.org non è circolata come una dichiarazione diretta del presidente palestinese, bensì sotto forma di un lancio dell’agenzia di stampa palestinese WAFA che attribuisce alcune frasi ad Abu Mazen senza nemmeno metterle tra virgolette, cosa che in seguito consentirà all’interessato di affermare davanti al pubblico arabo di non averle mai pronunciate o di essere stato citato in modo inesatto.

Nelle frasi riferite dalla WAFA, Abu Mazen non definisce mai “terrorista” l’assassino di tre civili israeliani uccisi a caso davanti a un bar di Tel Aviv. In effetti, non menziona affatto l’assassino. L’attentato stesso, nelle parole attribuite ad Abu Mazen, non viene mai definito come tale bensì come “un’operazione con armi da fuoco”. In nessun punto della “condanna”, Abu Mazen è riuscito a proferire le parole “terrorismo” o “terrorista”.

In Via Dizengoff le vittime erano tutte israeliane. Ma la dichiarazione di Abu Mazen afferma in modo generico che “l’uccisione di civili palestinesi e israeliani porta solo a un ulteriore deterioramento della situazione”. Si noti che al primo posto mette i “civili palestinesi” (quali civili? quelli che accoltellano gli israeliani?) per dare ancora una volta l’impressione che le prime vittime siano i palestinesi, e che quelle israeliane non ne siano che una conseguenza. E infatti, la “condanna” di Abu Mazen dell’assassinio a sangue freddo di israeliani innocenti consiste sostanzialmente nell’accusare gli ebrei di aver provocato l’attacco in quanto colpevoli di “ripetute incursioni nella moschea di al-Aqsa” e di azioni “provocatorie”. Abu Mazen aggiunge che alcuni ebrei potrebbero “sfruttare” l’attentato “per effettuare attacchi e reazioni contro il nostro popolo palestinese”.

Pagina Facebook di Fatah-Hebron, 30.3.22. Testo: “Gloria ed eternità ai nostri giusti martiri. Il Movimento Fatah. L’eroe delle Brigate Martiri di al-Aqsa, il martire Diya Hamarsheh che ha effettuato l’operazione con armi da fuoco a Bnei Barak con cui è salito (al Cielo) dopo aver ucciso 5 coloni (sic)”. Le vittime dell’attentato a Bnei Barak sono state: due residenti israeliani, un agente di polizia israeliano arabo-cristiano, due lavoratori ucraini

Assai significativo, infine, il fatto che in nessuna parte nella sua “condanna” Abu MAzen denuncia l’uccisione di ebrei innocenti come un atto in se stesso moralmente sbagliato. La sua “condanna” è strettamente limitata al fatto che tali uccisioni potrebbero causare “instabilità”.

Per analogia – continua Stephen M. Flatow – si pensi a come i leader americani hanno reagito ad attacchi terroristici interni negli Stati Uniti. Per esempio, quando Dylan Roof trucidò nove afroamericani in una chiesa della Carolina del Sud nel 2015. Si immagini se la “condanna” pronunciata dal presidente degli Stati Uniti avesse accuratamente evitato di menzionare Roof, avesse evitato di definirlo un terrorista, avesse definito la strage una “operazione con armi da fuoco”, avesse accusato gli afroamericani d’aver “provocato l’attacco” e avesse condannato tale attacco per il solo fatto che potrebbe causare “instabilità” nella società, e non perché è eticamente sbagliato e ripugnante assassinare a sangue freddo delle persone colpevoli soltanto di appartenere a un certo gruppo umano.

Perché importa cosa disse il presidente americano sull’attacco terroristico nella Carolina del Sud e cosa ha detto il presidente dell’Autorità Palestinese sull’attacco terroristico a Tel Aviv? Perché le parole contano. E le parole pronunciate dai leader sono particolarmente importanti. Una autentica, diretta e inequivocabile condanna pubblica degli attentati terroristici palestinesi – conclude Stephen M. Flatow – diffonderebbe il chiaro messaggio che l’Autorità Palestinese vuole sinceramente la pace e si oppone alla cieca violenza. Quel messaggio circolerebbe nella società palestinese e contribuirebbe a modificare l’atmosfera e gli atteggiamenti fra i giovani arabi palestinesi. Invece, i capi dell’Autorità Palestinese continuano a pagare i terroristi, a nominare in loro onore strade e scuole e quando Israele o Stati Uniti li costringono a pronunciarsi, formulano “condanne” ambigue e fasulle che lasciano il tempo che trovano.

(Da: jns.org, israele.net, 11-12.4.22)

 

In un editoriale del 10 aprile 2022, il quotidiano ufficiale dell’Autorità Palestinese Al-Hayat Al-Jadida spiega e giustifica la condanna da parte di Abu Mazen degli ultimi attentati terroristici palestinesi che hanno ucciso civili israeliani. L’editoriale sottolinea che nelle sue dichiarazioni Abu Mazen prima condanna l’assassinio di palestinesi da parte di Israele e poi, affinché l’Autorità Palestinese non venga accusata di doppia morale dalla comunità internazionale, include anche una denuncia dell’omicidio di israeliani. L’editoriale afferma inoltre che Abu Mazen usa un linguaggio politico che il mondo comprende e apprezza, e che le sue dichiarazioni mirano innanzitutto a denunciare Israele, a dipingerlo come responsabile delle violenze e a privarlo di qualsiasi pretesto per continuare con esse.
Secondo il Middle East Media Research Institute (Memri), che ha diffuso la traduzione in inglese di stralci dell’articolo, l’editoriale di Al-Hayat Al-Jadida è stato scritto in risposta a critiche di esponenti palestinesi contro la “condanna” degli attentati da parte di Abu Mazen.
(Da: memri.org, 12.4.22)

Il mese scorso il vice segretario del Comitato Centrale di Fatah, Sabri Saidam, si è recato in visita nelle sedi di Hebron e Gerico-Valle del Giordano del movimento che fa capo ad Abu Mazen e ha postato le relative immagini sulla sua pagina Facebook ufficiale.

Nelle immagini si vede che sulle pareti dei due uffici di Fatah campeggiano i ritratti di una serie di famigerati terroristi, fra cui:

– il capo terrorista di Fatah Abu Ali Iyad, responsabile di attentati esplosivi in Israele sin dalla metà degli anni ‘60;
Kamal Adwan, capo terrorista di Fatah e membro di Settembre Nero, il braccio terroristico di Fatah da cui all’epoca Fatah e Olp fingevano di prendere le distanze;
– l’arci-terrorista Khalil Al-Wazir, detto Abu Jihad, responsabile dell’assassinio di 125 persone, tra cui il massacro sull’autobus della strada costiera del 1978 (37 israeliani uccisi, compresi 12 bambini);
– il capo dell’organizzazione terroristica Settembre Nero Salah Khalaf, responsabile fra l’altro della strage degli 11 atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972.

Oltre ai terroristi, sulle pareti degli uffici fanno bella mostra di sé le immancabili mappe della Palestina che cancellano Israele dalla carta geografica.

(Da: palwatch, 8.4.22)

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