Quanto vale la vita di un civile palestinese?

Molto per Israele, pochissimo per Hamas. Per il resto del mondo, dipende da chi si può incolpare

Di Fred Maroun, Stephen M. Flatow

Fred Maroun, cittadino canadese di origine araba libanese, autore di questo articolo

Quanto vale la vita di un civile palestinese? Dipende a chi lo si chiede. Per Hamas, la vita dei civili palestinesi è a buon mercato. Hamas usa spesso i civili palestinesi come scudi umani, come hanno riconosciuto persino le Nazioni Unite e come Hamas stessa ha ammesso in più di una occasione. Per Israele, la vita umana in generale ha un enorme valore, come dimostra la scrupolosità con cui protegge i propri civili e militari, sia arabi che ebrei. Israele attribuisce un alto valore anche alla vita dei civili palestinesi: sia per ragioni etiche, sia perché viene costantemente criminalizzato quando tali vite vengono perse in un conflitto, indipendentemente da chi abbia messo a rischio quelle vite e indipendentemente da quanto Israele abbia cercato di fare per risparmiarle.

Per la comunità internazionale, infine, il valore della vita di un civile palestinese varia immensamente a seconda di chi può essere incolpato della perdita. Se i palestinesi sono vittime di altri arabi, la loro vita ha un’importanza del tutto trascurabile. Secondo Middle East Monitor, “in Siria, dallo scoppio della guerra civile nel 2011, sono stati uccisi 3.613 palestinesi”. I civili palestinesi vengono anche sistematicamente tormentati e uccisi dai gruppi palestinesi che sostengono di proteggerli, inclusi Hamas e Fatah. La comunità internazionale presta ben poca attenzione a questi crimini. Ma se c’è anche un briciolo di probabilità che possa essere incolpato Israele, ecco che la vita dei palestinesi improvvisamente aumenta di valore, e arrivano le convocazioni d’urgenza del Consiglio di Sicurezza e le altere dichiarazioni dei leader mondiali che condannano Israele.

Lo spettacolo mediatico messo in scena da Hamas ai confini fra Gaza e Israele è il risultato diretto di queste enormi discrepanze nel modo in cui viene valutata la vita dei civili palestinesi. La strategia è semplice ed efficace: basta mettere a rischio la vita dei civili palestinesi in una situazione in cui Israele è costretto a difendersi, assicurarsi che i mass-media internazionali abbiano un posto in prima fila, quindi sedersi e aspettare di raccogliere i risultati.

Il campo palestinese di Yarmouk, a 8 km dal centro di Damasco, occupato da varie fazioni anti-regime e poi dall’Isis, assediato per anni dalle forze di Assad e del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina-Comando Generale, tra sfollati e morti è passato da 120mila a meno di 10mila abitanti

A differenza della strategia di attaccare direttamente Israele, anch’essa ampiamente utilizzata da Hamas, questa tattica non richiede forniture di armi pesanti. Un po’ di bombe molotov e un po’ di armi da fuoco e armi bianche nelle mani dei terroristi mescolati ai civili sono sufficienti a fare di quella folla una seria minaccia per gli israeliani, che così saranno costretti a difendersi. E non fa correre alcun rischio ai capi terroristi, i cui covi vengono a volte presi di mira da Israele in risposta al lancio di razzi da Gaza. La strategia non costa soldi a Hamas, giacché gli indennizzi alle famiglie delle vittime saranno più che compensati da nuove donazioni internazionali. L’aspetto migliore di tutti è che il successo è garantito: i leader mondiali, le organizzazioni per i diritti umani e le agenzie internazionali incolperanno comunque Israele, e ignoreranno l’operato dei terroristi.

Nei recenti incidenti di confine la stragrande maggioranza dei morti palestinesi erano terroristi, il che dimostra che le Forze di Difesa israeliane hanno fatto estrema attenzione a evitare vittime civili, ammesso e non concesso che la stragrande maggioranza dei manifestanti fossero civili. Questo è tipico di qualsiasi operazione delle Forze di Difesa israeliane e non dovrebbe ormai sorprendere più nessuno. Quando negli scontri muoiono dei civili palestinesi, questo avviene a dispetto degli sforzi di Israele, non a causa loro.

La comunità internazionale sostiene di essere preoccupata per i morti e feriti palestinesi, ma il suo comportamento non corrisponde a tale affermazione. Se le importassero davvero, farebbe ciò che occorre per cercare di ridurre il numero di vittime palestinesi, e cioè ne attribuirebbe la colpa a chi la merita. Invece, fa esattamente il contrario. Finché la comunità internazionale continuerà a dare importanza alla vita dei palestinesi solo quando trova il modo, non importa quanto inverosimile, di incolparne Israele, Hamas e gli altri gruppi terroristi continueranno a usare la strategia adottata ai confini di Gaza, a perfezionarla e ad ampliarla, con conseguente aumento del numero di morti e feriti fra i civili palestinesi. Per i terroristi che non tengono in alcun conto la vita dei civili di entrambe le parti, questa strategia non ha semplicemente nessuna controindicazione.

(Da: Times of Israel, 5.4.18)

 

Stephen M. Flatow

Quella cinica conta dei morti che affascina i titolisti ma di per sé non spiega nulla

Scrive Stephen M. Flatow: Praticamente tutti i titoli relativi ai recenti scontri innescati dalla “marcia del ritorno” al confine fra Gaza e Israele si concentrano sulla conta del numero di arabi rimasti uccisi. Le ricorrenti violenze indette ogni venerdì da Hamas sembrano fatte su misura per le esigenze dei direttori e giornalisti particolarmente prevenuti contro Israele. Questo perché la parte che può vantare più vittime è sempre quella che riscuote maggiori simpatie, perlomeno fra i lettori e spettatori che conoscono solo superficialmente i fatti e che non hanno né tempo né voglia di approfondirli. Che è poi la grande maggioranza di lettori e spettatori. Naturalmente, se ci si pensa attentamente ci si rende conto che il conteggio dei morti non dice affatto da che parte sta l’aggressore e da che parte l’aggredito. Nella seconda guerra mondiale morirono molti più tedeschi che americani, ma ciò non fa della Germania nazista la parte aggredita, né la rende più meritevole di simpatia. Ma la maggior parte della gente non ci pensa, ed è su questo che fanno affidamento quei giornalisti e quei direttori. E non ci si lasci ingannare dall’obiezione secondo cui i mass-media sottolineano il numero delle vittime solo perché quella sarebbe la notizia più importante: un conto è titolare (come ha fatto la Reuters lo scorso 30 marzo) “le forze israeliane uccidono 16 manifestanti palestinesi al confine di Gaza”, altro sarebbe stato titolare (ad esempio) “16 attivisti di gruppi terroristi palestinesi uccisi dalle forze israeliane mentre davano l’assalto al confine d’Israele” [vedi box alla fine dell’articolo].

La “conta dei morti” in funzione anti-israeliana è agevolata dal fatto che le forze di sicurezza d’Israele sono molto brave a salvare vite umane. Quasi ogni giorno, da qualche parte in Israele, un terrorista palestinese tenta di uccidere degli ebrei. Quasi ogni volta, la polizia o i soldati sventano l’aggressione. E quasi sempre la vicenda viene totalmente ignorata dai mass-media internazionali. In pratica, i terroristi con una pessima mira vengono assolti in automatico.

“Sappiamo tutti cosa è successo agli ebrei l’ultima volta che i loro nemici disponevano di armi molto superiori”

Alla fine di marzo, 10 terroristi di Gaza della Jihad Islamica su una imbarcazione da pesca hanno iniziato a svolgere attività di monitoraggio in preparazione di un attacco con razzi anti-carro contro una nave israeliana. Sono stati intercettati in tempo. Pochi giorni dopo, a Beersheva (nel sud di Israele) è stato catturato un terrorista che si apprestava a trucidare degli ebrei. Il primo aprile, terroristi palestinesi hanno preso a sassate un autobus israeliano vicino a uno svincolo in Samaria. Speravano che le pietre facessero perdere il controllo al conducente, causando un incidente letale per i passeggeri. L’autista è stato effettivamente ferito, ma è riuscito a portare l’autobus al sicuro. Il giorno dopo, un terrorista palestinese ha tentato di pugnalare una guardia di sicurezza israeliana all’incrocio di Te’enim, vicino alla città di Avnei Hefetz. L’aggressore è stato colpito e ferito. Il 3 aprile, un terrorista palestinese si è scagliato con la sua auto contro una fermata d’autobus vicino ad Ariel. È stato colpito e ucciso prima che potesse causare vittime. Due giorni dopo, un terrorista palestinese armato di coltello è stato catturato in tempo vicino all’ingresso della Grotta dei Patriarchi a Hebron (e certamente non si trattava di un cuoco che ama portarsi gli attrezzi da lavoro infilati nelle calze). L’8 aprile un terrorista palestinese ha tentato di pugnalare un civile israeliano presso una stazione di servizio all’incrocio di Mishor Adumim, vicino a Ma’ale Adumim. Un altro civile presente alla scena ha sparato e ucciso il terrorista.

Non sono riuscito a trovare nessun accenno a questi incidenti nelle pagine del New York Times o del Washington Post o nei lanci della Associated Press o della Reuters. Evidentemente, i tentativi palestinesi di ammazzare ebrei, sventati in tempo, non fanno notizia: solo così Israele potrà essere sempre descritto come il “cattivo” della storia. E’ vero, gli aggressivi lanciatori di molotov di Gaza soffrono di un tasso di mortalità più alto rispetto agli israeliani: le bombe molotov e persino le pietre possono essere letali, come si è visto più volte; ma le armi dei soldati israeliani sono più precise ed efficaci. Ed è bene che sia così. Sappiamo tutti cosa è successo agli ebrei l’ultima volta che i loro nemici disponevano di armi molto superiori.

(Da: jns.org, 10.4.18)

Almeno 26 dei 32 palestinesi rimasti uccisi dall’inizio della crisi innescata dalla “marcia del ritorno” al confine fra Gaza e Israele erano terroristi operativi o affiliati a organizzazioni terroristiche. E’ quanto emerge da un rapporto dell’Intelligence and Terrorism Information Center “Meir Amit” di Tel Aviv. Nove di loro facevano parte di cellule militari terroristiche, quattro facevano parte dei servizi di sicurezza di Gaza. Gli altri 17 indicati come legati a gruppi terroristici sono stati identificati in questa categoria sulla base delle dichiarazioni pubbliche diffuse dai vari gruppi terroristici che hanno pubblicamente rivendicato il merito per la fedeltà o le attività di tali individui. I restanti sei non sono stati rivendicati da nessun gruppo terroristico e si può presumere che fossero effettivamente civili (il che non esclude che fossero impegnati a compiere attività violente o a fomentare violenze). Secondo il rapporto, cinque dei morti facevano parte dell’ala militare di Hamas Izz ad-Din al-Qassam, mentre quattro facevano parte dei servizi di sicurezza agli ordini di Hamas. Hamas ha direttamente celebrato la fedeltà e le azioni di altri sette, i cui corpi sono stati avvolti nelle bandiere del gruppo terrorista. Uno dei morti è stato identificato come collegato all’ala militare della Jihad Islamica palestinese, due come operativi del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, un altro come operativo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Altri sei erano membri di Fatah attivamente coinvolti negli scontri al confine. Due in particolare sono stati identificati come operativi delle Brigate Martiri di al-Aqsa, l’ala militare di Fatah. Di altri quattro è Fatah che ha rivendicato il merito e ne ha avvolto i corpi nelle sue bandiere. Secondo il rapporto, l’alta proporzione (80%) di persone affiliate a gruppi armati e terroristici corrobora la tesi che le proteste e gli scontri vengono orchestrati per lo più da quei gruppi, e non da leader civili. I gruppi terroristi non solo hanno celebrato i loro morti, ma ne hanno pubblicato le foto armati e in abiti militari. Di alcuni, i gruppi terroristi hanno esplicitamente affermato che sono stati colpiti mentre tentavano di aprirsi un varco nella recinzione di confine. Uno in particolare, armato di mitra Kalashnikov ed esplosivi, è stato colpito da un velivolo israeliano. Trenta dei 32 morti erano maschi adulti di età compresa tra i 19 e i 45 anni. Gli altri due erano adolescenti minorenni, e almeno uno dei due faceva parte del gruppo studentesco di Hamas. (Da: Jerusalem Post, 11.4.18)