Quegli “esperti” che non hanno l’umiltà di ammettere i propri errori (e si giocano la credibilità)

Alcuni paesi arabi hanno compiuto gesti verso Israele considerati finora inconcepibili, ma gli esperti insistono che nessun ulteriore progresso sarà possibile senza concessioni ai palestinesi. Come fanno a esserne così sicuri?

Di Evelyn Gordon

Evelyn Gordon, autrice di questo articolo

Ultimamente ascoltare certi “esperti” di Medio Oriente è diventato imbarazzante. Ammettono che il mondo arabo ha appena compiuto diversi passi eccezionali verso la normalizzazione dei rapporti con Israele, e ammettono di aver precedentemente considerato tali passi inconcepibili senza concessioni israeliane verso i palestinesi. Ma allo stesso tempo affermano senza il minimo dubbio che i progressi sul binario palestinese rimangono un prerequisito indispensabile per ogni ulteriore normalizzazione con i paesi arabi. In altre parole, il fatto che i loro pronostici precedenti fossero sbagliati non ha minimamente intaccato la loro fiducia nelle proprie capacità di previsione.

Gli esperti di Medio Oriente non sono ovviamente gli unici a comportarsi così. Si tratta di un atteggiamento abbastanza comune tra gli esperti in molti campi, e ha contribuito non poco al diffondersi del disprezzo “populista” verso l’opinione degli “esperti”. Ma i recenti sviluppi in Medio Oriente offrono un esempio particolarmente chiaro del problema.

Uno dei più significativi sviluppi è stata la visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo scorso 26 ottobre in Oman, un paese arabo che non ha relazioni ufficiali con Israele. Dato che persino Egitto e Giordania, che hanno relazioni diplomatiche con Israele, spesso mantengono segrete le visite di Netanyahu, il fatto che l’Oman abbia reso pubblico il viaggio, e che diversi giornali dell’Oman ne abbiano ampiamente riferito, è forse ancor più degno di nota della visita in se stessa.

Il giorno dopo, intervenendo in Bahrain al summit sulla sicurezza del Medio Oriente “Manama Dialogue”, il ministro degli esteri dell’Oman, Yusuf bin Alawi bin Abdullah, si è spinto ancora oltre affermando che “Israele è uno stato che appartiene a questa regione e lo capiamo tutti. Forse è tempo che Israele sia trattato allo stesso modo e abbia anche gli stessi obblighi”.

Il judoka israeliano Sagi Muki riceve dalla ministra israeliana della cultura e dello sport Miri Regev la medaglia d’oro vinta al Grande Slam di Abu Dhabi, lo scorso 28 ottobre

Quello stesso fine settimana, negli Emirati Arabi Uniti si è svolto un torneo internazionale di judo. Ha fatto notizia il fatto che, per la prima volta nella storia del Grande Slam di Abu Dhabi, i judoka israeliani siano stati autorizzati a competere con la loro bandiera e il loro inno: questo in realtà non prova granché, se non che la Federazione Internazionale di Judo ha finalmente raddrizzato la schiena. Dopo aver vigliaccamente costretto gli atleti israeliani a competere con la bandiera e l’inno della Federazione nel torneo dell’anno scorso, quest’anno ha minacciato di privare Abu Dhabi dei diritti di hosting se gli atleti israeliani non fossero trattati come gli atleti di tutti altri paesi (il successo di questa tattica dovrebbe insegnare qualcosa ad altre associazioni sportive che ancora si piegano al rifiuto degli stati arabi di riconoscere pari diritti agli atleti israeliani). La vera notizia è che Abu Dhabi è andato ben oltre quanto prescritto dalla Federazione. Ad esempio, nulla nel regolamento della Federazione richiedeva ai padroni di casa di accordare alla ministra israeliana della cultura Miri Regev l’onore di consegnare le medaglie di uno degli eventi del torneo. Né richiedeva ai funzionari degli Emirati di portare Regev in visita ufficiale nella Grande Moschea Sceicco Zayed, ad Abu Dhabi, la prima visita del genere da parte di un ministro israeliano. Come ha scritto Raphael Ahren, reporter del Times of Israel, ” è stato un evento che gli analisti più navigati non avrebbero mai immaginato di potere vedere nella loro vita”. In altre parole, Abu Dhabi ha approfittato della copertura fornita dal torneo sportivo per compiere dei gesti clamorosi verso Israele.

Gli esperti di Medio Oriente hanno prontamente riconosciuto che le mosse dell’Oman e degli Emirati, giunte proprio in un momento in cui il processo di pace israelo-palestinese è paralizzato, costituiscono fatti senza precedenti e totalmente inaspettati. Ma questo non ha impedito alla maggior parte di loro di tornare subito ad affermare che “solo un accordo sullo status definitivo con i palestinesi potrà aprire la strada alla normalizzazione” dei rapporti con il mondo arabo, come ha scritto Evan Gottesman dell’Israel Policy Forum. O come ha detto Yoel Guzansky, dell’Istituto di studi sulla sicurezza nazionale dell’Università di Tel Aviv, “i palestinesi sono ancora il tetto-limite alla normalizzazione arabo-israeliana. Questa visita dovrebbe essere l’inizio della normalizzazione, non la fine. Ma per gli stati del Golfo è probabilmente la fine: è il massimo che possono fare al momento”. Cosa li rende così sicuri di sé? Dopo tutto, hanno già sbagliato molte volte. Solo due anni fa, dopo un altro round di gesti senza precedenti, gli “esperti” avevano dichiarato in modo analogo (sbagliando) che il riavvicinamento si era spinto il più avanti possibile in mancanza di progressi sul binario palestinese. Come fanno ad essere così convinti che questa volta hanno ragione?

La ministra israeliana della cultura Miri Regev in visita alla Grande Moschea Sceicco Zayed, ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, lo scorso 28 ottobre

Ci sono due possibili spiegazioni. La prima è il volersi illudere. Gli esperti che fanno questa affermazione generalmente sono quelli che vorrebbero che Israele facesse concessioni ai palestinesi, quindi non vogliono che Israele riesca a normalizzare le sue relazioni con gli stati arabi senza fare tali concessioni. Analogamente, i pochi esperti che annunciano fiduciosi che la normalizzazione è perfettamente possibile indipendentemente dai palestinesi sono generalmente quelli che si oppongono alle concessioni.

La seconda spiegazione è che prevedere i cambiamenti è sempre difficile. Per decenni, con la ragguardevole eccezione della pace con l’Egitto, l’atteggiamento degli arabi nei confronti di Israele è rimasto statico, rendendo facile pronosticare che il futuro sarebbe stato uguale al passato. Ma ora, con gli atteggiamenti degli arabi in via di mutamento, nessuno può davvero sapere fino a che punto gli stati arabi sono disposti a spingersi. Probabilmente non lo sanno nemmeno loro. Semplicemente non c’è nessun precedente su cui basarsi per formulare una valutazione. Tuttavia, poiché gli esseri umani non si trovano a loro agio con l’imponderabile, la reazione normale è quella di aggrapparsi al passato come guida alla lettura dei fatti, anche quando questa guida chiaramente non è più affidabile. E questo vale in modo particolare per gli “esperti”: infatti, se ammettessero di brancolare nel buio, perché mai si dovrebbe continuare ad ascoltarli?

Questo è esattamente il motivo per cui gli esperti cadono così spesso in errore su tanti problemi: non perché siano stupidi o malintenzionati, ma perché sono troppo arroganti per ammettere che persino loro non possono prevedere il futuro. Non possono prevedere se una complessa strategia politica avrà successo o fallirà; non possono pronosticare quando imploderà all’improvviso un paese che sembra stabile; non possono preannunciare quando atteggiamenti di lungo periodo improvvisamente si modificheranno. Tutto questo non li rende inutili. Gli esperti possono eccellere in compiti concreti, che non richiedono poteri oracolari. Ad esempio, è vero che le agenzie di intelligence israeliane non seppero prevedere lo scoppio della “seconda intifada” (l’intifada delle stragi suicide), ma una volta che si sono adattate alla nuova situazione sono diventate eccellenti nel compito quotidiano di contrastare gli attentati terroristici.

Gli “esperti”, a meno che non acquisiscano abbastanza umiltà e onestà intellettuale per ammettere di non avere competenze specifiche sul futuro, continueranno a prendere cantonate sulle grandi questioni. E alla fine, come il ragazzo che gridava “al lupo, al lupo”, smetteranno di essere ascoltarti del tutto, anche su questioni in cui possono dare un vero contributo.

(Da: jns.org, 7.11.18)