Quel 7 giugno 1981 quando i jet israeliani distrussero il reattore atomico di Saddam Hussein
Quarant’anni fa il raid su Osirak sbalordì il mondo e pose le basi della politica d'Israele rispetto alle potenziali capacità nucleari degli stati nemici nella regione
Di Lilach Shoval
Quarant’anni fa Israele effettuava una delle missioni militari più audaci della sua storia: l’eliminazione di quello che era destinato a diventare il reattore nucleare iracheno. L’operazione che sbalordì il mondo è passata alla storia come uno dei raid più temerari mai eseguiti dall’aviazione israeliana, realizzato con successo a dispetto di ogni pronostico.
L’operazione Opera consistette in un attacco aereo a sorpresa compiuto da otto caccia dell’aeronautica militare israeliana il 7 giugno 1981. Sganciando 16 bombe, i jet spianarono l’obiettivo: Osirak, un reattore nucleare iracheno in costruzione 17 km a sud-est di Baghdad. Secondo quanto risulta, dieci soldati iracheni e un civile francese restarono uccisi nell’attacco aereo, che Israele definì un chiaro atto di autodifesa dal momento che mancava solo un mese perché il reattore iracheno (paese che non aveva mai firmato nemmeno un armistizio con Israele ndr) “raggiungesse il livello critico”. L’operazione Opera essenzialmente fissò i termini della politica israeliana circa le potenziali capacità in fatto di armi non convenzionali degli stati nemici nella regione (la cosiddetta Dottrina Begin).
L’attacco era stato preceduto da una serie di sforzi diplomatici da parte di Israele, che per cinque anni aveva cercato di impedire all’Iraq di realizzare le sue ambizioni nucleari. In particolare i rappresentanti israeliani avevano cercato – invano – di influenzare Stati Uniti e Francia, che avevano fornito all’Iraq il reattore nucleare.
Mentre erano in corso gli sforzi diplomatici, l’establishment della difesa aveva lavorato senza sosta sulle possibili opzioni militari. Si riteneva comunemente che bombardare il reattore iracheno avrebbe ritardato il progetto nucleare di Baghdad di alcuni mesi o al massimo di alcuni anni, per cui l’allora direttore dell’intelligence militare Yehoshua Sagi, contrario all’intervento, chiedeva se ciò giustificasse gli enormi rischi operativi, oltre alla reazione che Israele avrebbe sicuramente dovuto affrontare sull’arena internazionale.
Una volta decisa l’azione, vennero selezionati sette piloti veterani e un giovane pilota, Ilan Ramon, che 22 anni dopo sarebbe diventato il primo astronauta israeliano, ma che all’epoca era alla sua prima missione operativa. I piloti vennero informati del loro obiettivo solo dopo mesi di addestramento, durante i quali una delle preoccupazioni più gravi era stata quella del rifornimento. Il rifornimento in volo non era un’opzione e il carburante che allora imbarcavano gli aerei da combattimento F-16 era appena sufficiente per colpire in Iraq e tornare in Israele.
“Dovemmo fare i conti con notevoli sfide operative, una delle quali era la difesa antiaerea irachena – dice a Israel HaYom l’ex direttore dell’intelligence militare Amos Yadlin, uno degli otto piloti che parteciparono al raid – In quel momento l’Iraq era in guerra con l’Iran e gli iraniani avevano già provato ad attaccare il reattore nel gennaio 1981 con i Phantom, mettendo in allarme gli iracheni circa la necessità di proteggere il loro reattore. Inoltre, le nostre riserve di carburante erano molto basse e se avessimo dovuto ingaggiare un duello aereo non avremmo più avuto il carburante per tornare a casa”.
I jet, ricorda Yadlin, “volarono a bassa quota su tre stati nemici: Giordania, Arabia Saudita e Iraq. L’attacco fu molto compatto in modo che il fumo delle bombe sganciate dai jet numero uno e due non ostruisse il bersaglio alla vista dei numeri sette e otto. La posizione otto, la più pericolosa nella formazione dell’attacco, venne presa da Ilan Ramon che all’epoca era single e non aveva figli. L’intero attacco durò circa un minuto e mezzo”.
Alla domanda su cosa gli sia passato per la testa durante l’operazione, Yadlin risponde: “Se qualcuno dice che i piloti non hanno paura, non dice la verità. Abbiamo volato per un’ora e 43 minuti, addentrandoci in luoghi dove nessun aereo israeliano era mai andato, nei cieli di un paese con cui siamo in guerra. Quando ho sentito la bomba cadere e colpire l’obiettivo, solo allora la pressione ha iniziato a scendere”. E conclude: “Se esiste davvero una legge secondo cui tutto ciò che può andare storto andrà storto, ebbene in quella missione tutto ciò che avrebbe potuto andare storto non andò storto. Nessuno di noi si fece male e il reattore venne distrutto. Fu e rimane un incredibile successo”.
(Da: Israel HaYom, 6.6.21)