Quel missile che mi mancò per pochi centimetri

La testimonianza di un soldato arabo-israeliano: “Ciò che altri chiamano post-trauma, noi invalidi di guerra lo chiamiamo vita”

Di Yoseph Haddad

Yoseph Haddad, autore di questo articolo

Nella frazione di secondo che ci volle al missile Kornet per sfiorarmi e passare oltre non mi balenò tutta la vita davanti agli occhi, né pensai a nobili idee come morire per il mio paese. Non pensai nemmeno alla mia famiglia. L’unica cosa che mi passò per la mente fu: “Oh merda!”

Un’ora prima di questo incidente, eravamo impegnati a salvare i nostri feriti da un carro armato che era stato colpito da pesanti bombardamenti. Non dimenticherò mai le urla e lo sguardo sul volto del comandante del carro armato mentre lo tiravamo fuori dal blindato per metterlo sulla barella. Erano le 6.30 del mattino e stavamo cercando di metterci al riparo quando improvvisamente fummo attaccati, presi in un’imboscata dai combattenti della milizia (jihadista libanese) Hezbollah. Sono stato molto fortunato: il missile che hanno sparato contro di me mi ha mancato per pochi centimetri. Ma l’impatto dei missili sul muro dietro di me è stato così forte che sono rimasto seriamente ferito un po’ in tutto il corpo. E ho perso una gamba. Pochi minuti prima facevo parte della squadra dei soccorritori, e adesso ero io il ferito che aveva bisogno di essere sgomberato.

Ho perso molto sangue. Intorno a me erano in corso pesanti combattimenti, e tutto quello a cui potevo pensare era a mia madre e a cosa le avrei detto. Ero perfettamente cosciente mentre venivo portato via sulla barella, e mentre mettevano accanto a me sulla barella la mia gamba amputata. Sono rimasto cosciente per tutto il tempo che si sono presi cura di me, dentro una casa abbandonata sotto il fuoco nemico, mentre il medico riservista che era con noi gridava sul ricetrasmettitore: “Se non lo facciamo portare via subito, non ci sarà nessuno da portare via questa sera!”. L’elicottero sopraggiunse come un angelo che scende dal cielo. Quando sono arrivato all’ospedale di Naharyia (nord Israele), ho parlato con mio padre. Sono riuscito a dire: “Papà, sono io, sono ferito ma sono vivo”. E poi ho perso conoscenza.

Veterani disabili delle Forze di Difesa israeliane

Quel momento fatale a Bint Jbeil (Libano sud) mi ha conferito la mia nuova identità di “veterano disabile delle Forze di Difesa israeliane”. Non ho scelto io questo nuovo titolo d’onore, né lo desideravo. Ero semplicemente un ragazzo arabo israeliano di 21 anni, originario di Nazareth. Mi sono offerto volontario per servire nella Brigata Golani, e come molti miei compatrioti che prestano servizio nell’esercito anch’io sognavo il mio agognato viaggio all’estero, dopo i tre anni di servizio militare. Poi tutto è cambiato.

Far parte dei veterani disabili delle Forze di Difesa israeliane significa far parte di un’ampia famiglia che in questo paese conta decine di migliaia di persone: persone che sono davvero il sale della terra. Siamo una grande famiglia nella quale religione, origini etniche e opinioni politiche sono totalmente irrilevanti. Persone per le quali il proprio paese è sopra ogni altra cosa, e che al proprio paese hanno dato letteralmente una parte di sé.

Ma è anche un gruppo di persone che all’inizio dei vent’anni devono abituarsi a un modo di vivere totalmente nuovo, a una nuova realtà. Un attimo prima stavamo combattendo contro i terroristi in Libano, e un attimo dopo stiamo combattendo per imparare a camminare. Le ferite non ci hanno lasciato solo cicatrici nel corpo. Ci hanno lasciato anche cicatrici emotive e, per la mia esperienza, quelle emotive pesano di più di quelle fisiche. Una semplice porta che sbatte mi mette in ansia. Ogni notte, quando chiudo gli occhi, rivivo di nuovo il traumatico momento del ferimento. Quello che altri chiamano post trauma, è ciò che noi chiamiamo vita.

Tuttavia, essere un veterano delle Forze di Difesa israeliane significa anche che sei uno dei fortunati, perché avresti potuto essere facilmente uno dei morti: quello stesso gruppo di amici che combatteva al tuo fianco e che non ce l’ha fatta a tornare a casa. Sempre la stessa domanda mi perseguita in continuazione: perché io sono qui e loro no? Perché io ce l’ho fatta e loro no? Cosa rimane di quei giorni oltre a ricordi, dolore e questo nostro piccolo paese?

Quest’anno il 25 novembre cadeva la “Giornata in onore degli israeliani resi invalidi dalla guerra e dal terrorismo”. Non è un giorno triste come la Giornata dei caduti d’Israele, perché noi siamo vivi. Ma non è un giorno felice, perché siamo rimasti feriti per sempre.

Ma è l’occasione per fermarsi un momento e fare un passo indietro rispetto alla pazza realtà del nostro paese, e sentirci uniti. In fin dei conti lo Stato di Israele appartiene a tutti noi, e tutti ne facciamo parte e abbiamo pagato tutti, e continuiamo a pagare, un prezzo molto alto per questo. Anche se non siamo tutti d’accordo sul percorso, siamo tutti d’accordo sul punto finale: questo è il nostro paese e non abbiamo nessun altro paese al mondo.

(Da: Times of Israel, 26.11.18)