Quel piano di pace che di pace ancora non è

Così com’è, il “piano saudita” è solo un diktat a senso unico

di Zalman Shoval

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Zalman Shoval, autore di questo articolo

Durante la sua recente visita in Israele, l’inviato americano George Mitchell ha rivelato che l’amministrazione Obama guarda alla cosiddetta “iniziativa di pace araba” (alias iniziativa saudita) del 2002 come al punto di partenza per una pace fra Israele e mondo arabo, palestinesi compresi. L’affermazione di Mitchell riflette un approccio politico che si sta sempre più rafforzando a Washington, in questi giorni, come è apparso evidente fra l’altro da alcune dichiarazioni del presidente Barack Obama nella conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu.
In effetti, in termini generali, l’approccio regionale è quello preferito anche da Netanyahu. Nel loro summit a quattr’occhi i due leader hanno discusso sui modi e i mezzi per sostenere i binari di una pace israelo-araba con la partecipazione di altri soggetti del mondo arabo. Per dirla con Netanyahu, “vorrei allargare la cerchia della pace sino ad includere altre parti del mondo arabo”.
Con tutta evidenza questo approccio regionale alla questione palestinese è stato rafforzato dalla comune minaccia di un Iran nucleare, sebbene una spinta verso nuove idee l’abbia data anche il fallimento, agli occhi sia degli Stati Uniti che di Israele, del processo di Annapolis.
Sfortunatamente però, anche se non si dovrebbe “giudicare un libro dalla copertina”, né la “copertina” né i “contenuti” del “piano arabo” nella sua forma attuale appaiono particolarmente incoraggianti. In realtà, il focus del documento originale non era sulla pace né sull’apertura di alcuno spazio negoziale; si trattava piuttosto di una sorta di ultimatum, un diktat che Israele dovrebbe accettare nella sua interezza: altrimenti, guai a lui! Se Israele lo rigetta, la violenza – o, per dirla con il re saudita Abdullah, la “fermezza e la lotta” continueranno.
Se la “copertina” era dunque così problematica, il contenuto lo era ancora di più, non lasciando alcun dubbio su quali fossero le reali intenzioni degli autori, per quanto abilmente confezionate in altisonanti frasi su pacificazione e riconciliazione. Oltre alla richiesta senza mezzi termini di un totale ritiro da tutti i “territori” comprese Gerusalemme est e le alture del Golan (fino alle coste del Lago di Tiberiade, vale a dire fino a comprendere aree che la Siria aveva carpito illegalmente prima del ’67), il “piano” chiedeva anche inequivocabilmente il “ritorno” dei profughi arabi.
C’è chi male interpreta questa clausola come se fosse soggetta al consenso di Israele. Ma, come ha ben spiegato in un articolo su Ha’aretz il prof. Asher Sasser, esperto del Moshe Dayan Center all’Università di Tel Aviv, “la dichiarazione conclusiva che accompagna il testo del ‘piano di pace’ mette in chiaro che i leader arabi aderiscono al ‘diritto al ritorno’ per i profughi palestinesi (e loro discendenti) e che secondo loro questo è il solo e unico modo per dare applicazione alla risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’Onu”. In altre parole, non solo Israele non avrà alcun diritto di acconsentire o non acconsentire all’insediamento dei profughi, ma deve anzi considerare questa disposizione come la sola e unica interpretazione valida delle relative risoluzioni Onu.
Inutile dire che il “piano” è ricco di altre distorsioni, come ad esempio la citazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza come se essa invocasse un ritiro israeliano senza condizioni da tutte le terre conquistate nella guerra combattuta per respingere l’aggressione araba del 1967, senza menzionare il fatto che quella risoluzione condizionava invece tempi e modi del ritiro a cruciali valutazioni di sicurezza. In effetti, se si dovesse realizzare il piano arabo, Israele perderebbe qualunque possibilità di difendersi adeguatamente.
Ciò che appare chiaro in tutto il documento è che i suoi autori hanno ignorato il principio che un compromesso deve essere sempre a due sensi di marcia, e che non tocca solo a Israele fare concessioni.
Evidentemente l’amministrazione Usa è consapevole dei tanti difetti e aspetti negativi del “piano” nella sua forma attuale, e di conseguenza ha fatto dei passi, nei contatti con i leader arabi, per cercare di introdurre dei cambiamenti sia nel contenuto che nella forma. In questo contesto si è avuta la dichiarazione, poche settimane fa, del segretario di stato Hillary Clinton secondo cui “gli arabi, con le parole e coi fatti, devono dimostrare che lo spirito dell’iniziativa di pace può iniziare a guidare fin d’ora i loro atteggiamenti verso Israele”. E il presidente Obama, nella sua conferenza stampa con il re di Giordania, ha indicato che, sebbene l’iniziativa araba possa essere vista come un “inizio costruttivo”, i paesi arabi devono “dimostrare il loro impegno verso il processo di pace”. Dopo il suo incontro con Netanyahu, Obama ha chiesto agli stati arabi di “normalizzare” le loro relazioni con Israele. Un’affermazione simile era stata fatta dal vice presidente americano Joseph Biden e nello stesso spirito la scorsa settimana il New York Times scriveva che Obama “dovrebbe sfidare i leader arabi a dare risposta, eventualmente avviando con Israele contatti diplomatici e scambi apertamente dichiarati”.
Talvolta uno dei compiti della diplomazia è quello di abbracciare una certa situazione per modificarla a proprio vantaggio. Purtroppo il piano di pace arabo così com’è oggi è lungi dal convincere gli israeliani che hanno di fronte un genuino interlocutore nella ricerca della pace per la regione. Ma se gli arabi fossero pronti a intavolare autentici negoziati senza precondizioni, con l’obiettivo di arrivare alla pace, le cose potrebbero volgere al meglio.

(Da: Jerusalem Post, 20.05.09)