Quella “linea rossa” dei palestinesi che sta alla base del conflitto

Gli israeliani hanno riconosciuto i "legittimi diritti dei palestinesi" 35 anni fa: è ora che i palestinesi facciano altrettanto

Di Efraim Inbar

Efraim Inbar, autore di questo articolo

Efraim Inbar, autore di questo articolo

I mass-media hanno riferito che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha respinto le proposte di pace presentate dal segretario di stato americano John Kerry. I palestinesi hanno lasciato trapelare che Abu Mazen ha inviato una lettera a Kerry nella quale ribadisce la sua totale opposizione alla richiesta di riconoscere “Israele come stato ebraico”, definendo tale rifiuto una “linea rossa” invalicabile per i palestinesi.

Questa “linea rossa” non è solo semantica. È, piuttosto, l’essenza stessa del conflitto. La posizione palestinese equivale a negare agli ebrei il diritto di avere un loro stato nella loro patria storica. Di più. Indica senza ombra di dubbio che i palestinesi, nonostante quel che comunemente si pensa, non sono ancora disposti ad arrivare a uno storico compromesso con il sionismo, il movimento risorgimentale ebraico. Dunque una pace stabile, fondata sul riconoscimento reciproco e sulla cessazione di ogni pretesa e rivendicazione, non è alle viste.

Sembra che la debole Autorità Palestinese accetti la spartizione della ex-Palestina Mandataria britannica in due stati (magari secondo l’approccio a tappe teorizzato sin dal 1974 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina); in realtà continua a non accettare la legittimità dell’impresa sionista. Il che è in netto contrasto con la posizione di Israele, che ha riconosciuto i “legittimi diritti dei palestinesi” sin dall’accordo-quadro firmato a Camp David nel settembre 1978 (sez. A par. 3), e che è pronto a cedere territori per realizzare la spartizione della Terra d’Israele/Palestina (accettata nel 1947 da Israele, ma rifiutata dalla parte araba). L’amara verità è che questa asimmetria del conflitto israelo-palestinese non è cambiata da più di un secolo a questa parte. In sostanza questo conflitto etnico-religioso non verte tanto sul territorio, sebbene abbia anche ovviamente una dimensione territoriale, quanto sul concetto di garantire all’altra parte il riconoscimento dei suoi diritti nazionali in un dato territorio.

A dispetto della loro reputazione di inaffidabilità, i palestinesi in realtà danno grande importanza al linguaggio preciso che viene utilizzato nei documenti che si chiede loro di firmare. Yasser Arafat, generalmente considerato dalla maggior parte degli israeliani un perfetto bugiardo, nel 2000 si rifiutò di firmare un accordo che comprendeva una clausola sulla cessazione del conflitto e la fine di tutte le rivendicazioni. Per lui il conflitto poteva finire soltanto con la scomparsa finale di Israele. Allo stesso modo, Abu Mazen non può spingersi fino a porre la sua firma su un documento in cui si afferma che gli ebrei si sono ristabiliti nella loro patria. Si sa che la percezione degli ebrei in Palestina come invasori stranieri è il concetto universale che sta a fondamento della posizione palestinese, e che viene instillato nelle giovani generazioni attraverso tutte le scuole gestite dall’Autorità Palestinese.

Tutta la pubblicistica araba (come questo poster nell’Università al-Quds) rappresenta lo stato palestinese come cancellazione di Israele dalla mappa geografica

Tutta la pubblicistica araba (come questo poster nell’Università al-Quds) rappresenta la mappa dello stato palestinese come cancellazione di Israele dalla carta geografica

Il grado di radicamento di questi atteggiamenti appare in tutta evidenza dal fatto che manca totalmente un dibattito interno tra i palestinesi su questo punto: se riconoscere o meno Israele come stato nazionale del popolo ebraico. Nelle attuali elaborazioni intra-palestinesi non è nemmeno concepibile che si possa discutere di diritti degli ebrei in Terra di Israele. Nemmeno i palestinesi definiti moderati sollecitano un dibattito tra palestinesi sull’opportunità o meno di riconoscere il diritto all’autodeterminazione degli ebrei nella loro patria storica. I sondaggi d’opinione palestinesi non pongono nemmeno la domanda se Israele debba essere riconosciuto come stato ebraico. Il linguaggio normativo nel discorso palestinese menziona diritti e norme internazionali esclusivamente in riferimento alle rivendicazioni palestinesi, e non viene mai applicato a un qualche tentativo di capire a cosa aspirano gli israeliani.

Lo sforzo dei mass-media palestinesi di negare il passato ebraico e tutti i legami storici fra gli ebrei, questo paese, Gerusalemme, il Monte del Tempio e persino il Muro Occidentale (“del pianto”) è un indicatore dell’impegno ideologico profuso nel riscrivere la storia. Allo stesso modo, l’archeologia palestinese viene usata per cancellare tutte le tracce della presenza ebraica in questo paese. Vengono addirittura ignorate le fonti coraniche che citano i legami degli ebrei con la Terra d’Israele.

Tale comportamento palestinese serve solo a prolungare all’infinito il conflitto, perché non insegna mai ai palestinesi che gli ebrei sono parte della storia di questa terra. Si tratta di comportamenti intollerabili e incompatibili con la pace e la convivenza, e dovrebbero cessare prima che Israele si impegni firmando un accordo di pace globale.

I palestinesi non sono gli egiziani e i giordani, ai quali non venne chiesto di accettare Israele come stato nazionale del popolo ebraico perché non avevano mire sulla Terra d’Israele/Palestina, mentre sono i palestinesi e gli israeliani che si combattono per lo stesso pezzo di terra. Dal momento che gli israeliani hanno riconosciuto la necessità di uno stato arabo-palestinese a fianco di Israele 66 anni fa e la legittimità dei diritti palestinesi 35 anni fa, è davvero ora che i palestinesi imparino finalmente a conoscere “l’altro” con cui sono in conflitto e ricambino il riconoscimento, se vogliono costruire sul serio la pace.

(Da: Israel Ha Yom, 16.12.13)